L’arte povera di Jorge Bergoglio

Non bastava aver definito la Madonna, Maria, Miryam della Casa di David, una “meticcia”.

L’ultima – soltanto in ordine di tempo, perché a breve ne produrrà di certo altre – delle brillanti affermazioni “teologali” di Jorge Bergoglio, riguarda la croce di resina plastica rivestita dal giubbotto salvagente di un ignoto “migrante” scomparso in mare esposta in Vaticano.

A parte il fatto che mi piacerebbe sapere come si è potuto affermare con tanta certezza che quel giubbotto sia appartenuto allo sfortunato defunto se di lui non si sa altro, essendo costui rimasto ignoto, resta ormai inutile stupirsi se qualcuno depone bottiglie colme d’urina in un Presepe, sostituisce il Bambin Gesù con uno analogo ma di colore nero (pare che “negro” non sia politicamente corretto da dirsi, quindi non potremo neanche dir più né negriero, né negritudine, negramaro e neanche negromante), immerga il crocifisso sempre nell’urina o disegni Cristo in palese atteggiamento omoerotico. Bergoglio ha più volte manifestato la propria attitudine alla bellezza e all’arte disertando i Musei Vaticani e la Cappella Sistina, preferendo loro quella “barcarolata” installata tra i colonnati berniniani di San Pietro. Un intenditore, insomma.

E pensare che i suoi predecessori, per quasi due millenni, hanno tutti contribuito a donare al mondo arte, bellezza e cultura favorendo artisti e creando ricchezza e meraviglie. Michelangelo, Perugino, Raffaello, Bernini e innumerevoli altri sono potuti essere i grandi e immortali maestri che sappiamo anche grazie ai cospicui compensi pontifici che ricevevano. Ma allora era un creare in oro, argento, lapislazzulo e gemme senza pari, oggi invece al valore reale e a quello simbolico delle opere, si è sostituito – in nome di un ipocrita pauperismo – l’uso di materiali miseri e artificiali.

Sarebbe il caso di ricordare ben altro grado di Sommi Pontefici seduti sul Santo Soglio, forse anche di scomodare uno dei più “terribili”, come quel Felice Peretti, frate marchigiano che prese il nome di Sisto V, al quale – tra i tanti – si attribuisce questo racconto al limite della leggenda: un giorno a Roma si sparse la notizia che, fuori città, una scultura lignea del Cristo trasudava sangue. Il luogo divenne subito meta di pellegrini e da costoro il proprietario del terreno dove era il crocifisso “miracoloso” ne ricavava abbondanti introiti. Il fatto giunse alle orecchie del Papa, che volle subito recarsi sul luogo per accertarsi di persona. Mostratagli la prodigiosa scultura, Sisto V chiese un'ascia e dicendo “come Cristo ti adoro; come legno ti spacco”, vibrò un gran fendente sul crocifisso, spaccandolo in due e scoprendo così al suo interno, dinanzi agli attoniti astanti, una spugna intrisa di sangue animale comandata da una corda che, tirata, la strizzava facendo sì che la scultura emettesse il sangue. Ovviamente il proprietario terriero che aveva ordito l’inganno venne messi in ceppi e giustiziato. Da questa storia scaturì il ben noto modo di dire: “Papa Sisto non la perdona neppure a Cristo!”.

Come avvenne a Poitiers e a Vienna, anche a Lepanto Papa Pio V benedisse lo stendardo della Lega Santa, che recava sul campo scarlatto il Crocifisso, posto tra gli apostoli Pietro e Paolo, sormontato dal motto costantiniano In hoc signo vinces. Il vessillo, insieme con l'immagine della Madonna e l’epigrafe “S. Maria succurre miseris”, venne issato sulla nave ammiraglia Real, accompagnato dalle preghiere e dal rombo dei cannoni per tutta la durata della battaglia sino alla vittoria della flotta cristiana. A Roma, Pio V commissionò rappresentazioni dello scontro di Lepanto, come quella di Giorgio Vasari nella Sala Regia dei Musei Vaticani, mentre oggi nessuno stendardo porpora e oro garrisce più sui mari, soltanto le bandiere arcobaleno, quelle delle Ong sventolano a ricordarci sempre che questa è un’età di nani e non più di giganti.

Aggiornato il 27 dicembre 2019 alle ore 17:42