L’aiuto al suicidio, ai confini della legge

Dell’aiuto al suicidio, su cui la settimana scorsa si è pronunciata la Corte costituzionale, ci sono studiosi e associazioni che conoscono molto meglio di noi le vicende, i dettagli e le implicazioni. D’altro canto, ciascuno di noi, su questi argomenti, ha convinzioni forse confuse o forse decise, di sicuro personali.

In attesa di leggere per esteso la sentenza, tuttavia, la prima reazione alla sua anticipazione, per un istituto che si batte da anni per una libertà integrale e consapevole delle persone rispetto alle coercizioni pubbliche, è di un passo indietro della visione della legge come agente di risoluzione dei nostri problemi, anche i più drammatici.

Da quel che si ricava dal comunicato ma anche dall’ordinanza che, l’anno scorso, ha avviato il giudizio, l’elemento più rilevante dal punto di vista di un agire libero e consapevole sembra proprio l’accettazione che agli angoli delle vicende umane possano restare zone d’ombra dove i riflettori della legge arrivano a stento.

A determinate condizioni, dice la Corte, non può essere ritenuto punibile di aiuto al suicidio chi assiste a tale proposito un individuo che, tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili, in maniera consapevole e libera decide di porre fine a tali disperate sofferenze.

Non si tratterebbe né di anarchia, né di tecnocrazia. Ma del riconoscimento che la vita è qualcosa di molto più complicato delle rigide definizioni del legislatore e che esistono situazioni al limite dove ciò che normalmente è reato (punito fino a 12 anni di reclusione) diventa sostegno; ciò che le persone, le comunità di riferimento, le istituzioni devono evitare con ogni sforzo diventa una decisione degna, se libera e autonoma.

La Corte ha chiamato il legislatore a intervenire per individuare le specifiche condizioni e modalità procedimentali, per esempio per accertare il consenso del soggetto o per verificare le opportune condizioni di esecuzione. Non è né un atteggiamento pilatesco né una fiducia incondizionata nelle virtù taumaturgiche del Parlamento. Al contrario, per quel che emerge finora, è il riconoscimento che le situazioni più difficili richiedono un bilanciamento di valutazioni e valori a cui sono chiamate in ultima istanza le coscienze individuali, caso per caso, evitando a chi soffre la solitudine dell’obbedienza a un legislatore lontano.

Aggiornato il 02 ottobre 2019 alle ore 10:31