Aggressioni ai medici: tolleranza zero

In un recente articolo Luciano Cifaldi, medico oncologo e Segretario generale della Cisl Medici Lazio, intervistato sul fenomeno delle aggressioni ai medici, non si era trincerato dietro frasi di circostanza frutto di una cultura buonista tendente a comprendere, a tollerare ed al più prevenire il ripetersi degli episodi. Aveva parlato di tolleranza zero e di strumenti repressivi e punitivi che il legislatore dovrebbe avere il coraggio di adottare per tutelare la categoria.

Le sue dichiarazioni non sono passate inosservate.

Bene, se è così è un primo risultato. La politica deve capire che la tutela di ciò che ancora è in piedi nel Servizio Sanitario Nazionale passa attraverso la salvaguardia dei suoi operatori, di noi medici in particolare visto che io appartengo a questa categoria. I nostri camici bianchi sono sempre più imbrattati del nostro sangue ed è arrivato il momento di dire basta.

Un’immagine forte quella del camice bianco intriso di sangue del medico

Un’immagine vera, basta leggere le cronache o fare una ricerca su internet. E quando il camice non è intriso di sangue a volte lo si deve a circostanze fortunate come nel caso dello squilibrato di Rimini che cercava il medico da punire brandendo una motosega. La vostra testata se ne è occupata nell’assordante silenzio della stampa nazionale, quasi che la notizia, privata dalla gravità del mancato ferimento od omicidio, fosse riducibile ad una gag comica e dunque immeritevole di essere pubblicata.

Il fenomeno della violenza ai medici è un fenomeno che esiste al di fuori dei confini nazionali, anche in Paesi dove le tradizioni culturali e religiose, che indubbiamente permeano il vivere ed il sopravvivere quotidiano, sono ben diverse dalle nostre.

Leggevo in questi giorni un articolo pubblicato sulla rivista indiana di Psichiatria dal titolo emblematico: “Violence against doctors: a viral epidemic?”. L’associazione dei medici indiani evidenzia come il 75 per cento dei camici bianchi abbia subito una qualche forma di violenza, ingiurie verbali, telefonate minacciose, intimidazioni, vandalismi, aggressioni fisiche, ustioni e omicidi. I medici aggrediti hanno sviluppato in seguito disturbi psicologici, depressione, insonnia, ansia, stress post traumatico. Indubbiamente giocano anche altri fattori quali la povertà delle popolazioni rurali in aree periferiche del Paese e l’attitudine di una certa politica locale che strumentalizza la morte di un soggetto per dimostrare la propria forza, scatenando azioni di danno a carico della struttura ospedaliera locale fino a vere e proprie azioni di saccheggio.

Questo in India, e in Italia?

Medici giovani e di sesso femminile sono maggiormente a rischio di subire violenze. Interessante il dato che il 100 per cento dei medici che lavorano nei dipartimenti di emergenza hanno subito violenza verbale. Altro motivo per valutare se attribuire ai nostri medici di Pronto soccorso la qualifica di pubblico ufficiale. Peraltro, l’articolo di cui consiglio una lettura che tenga conto delle differenze tra il nostro Paese e l’India, argomenta anche quattro livelli di responsabilità: dei governanti, dei media, dei medici e delle istituzioni.

Interessante la parte che riguarda il ruolo dei media

“Doctors are almost always portrayed negatively by the media. There are sensational news reports of death and sting operations against doctors. Media needs to understand that the practice of medicine is not a black-and-white subject. Diagnosis of a patient is essentially a hypothetico-deductive process, and with the appearance of new evidence through investigations and knowledge, the diagnosis of some of the cases continues to be questioned and refined. However, whatever the diagnosis be, there is always a risk of negative outcomes. Doctors cannot be held accountable for every death that occurs in the hospital on account of negligence”. Serve tradurre? C’è tutto, dal sensazionalismo giornalistico alle difficoltà del ragionamento clinico, dagli aspetti indefinibili ed imprevedibili che possono accompagnare ogni malattia al fatto, giova ricordarlo con forza, che non si può attribuire alla malasanità ogni decesso in una struttura di ricovero.

E le responsabilità dei medici come vengono ritratte nell’articolo?

Significativi livelli di litigiosità tra professionisti, carente comunicazione ai malati e ai loro familiari, scarsa importanza attribuita da parte dei camici bianchi al consenso informato e sottovalutazione di alcuni segnali di allarme come l’instaurarsi di alterchi verbali, aumento dei toni vocali cui si contrappongono da parte degli operatori risposte caustiche e sarcastiche. E poi la scarsa empatia di cui però francamente cominciamo anche in Italia ad avere piene le tasche. Vallo a spiegare al collega di Pronto soccorso, mentre lavora nel suo girone infernale, che deve essere un fantastico diagnosta, un efficacissimo terapeuta e anche perfetto empatico capace di comprendere l’altrui stato d’animo. Roba da meritarsi le aggressioni, ma stavolta da parte dei nostri colleghi a chi propugna ancora questa tesi dell’empatia.

Proposte della Cisl Medici Lazio?

In parte sono le stesse delineate nell’articolo. “All medical institutions should have closed circuit televisions installed and have a zero tolerance to workplace violence”. Inoltre, la modifica delle norme a tutela degli operatori sanitari, la presenza di un posto di Polizia di Stato in ogni ospedale ed in questo senso abbiamo scritto al Ministro dell’Interno, ai Prefetti dei capoluoghi del Lazio ed all’assessore alla Salute. È necessaria però la tolleranza zero da parte dei direttori generali delle nostre aziende sanitarie locali ed ospedaliere, che devono favorire la promozione dell’azione giudiziaria in ogni sede contro gli aggressori verso i quali deve esserci un inasprimento delle pene. Basta giustificazioni e basta con il buonismo a tutti i costi, sì alla certezza della pena.

@vanessaseffer

 

Aggiornato il 05 settembre 2019 alle ore 16:30