Proviamo a parlare di disobbedienza, ma senza pregiudizi e, soprattutto, senza attributi, i quali, si sa, possono addirittura capovolgere il significato delle parole.
Disobbedienza esprime la mancata osservanza di un ordine. Si tratti dell’intimazione della mamma, che vieta al bambino di scrivere sui muri, o dell’imperio della legge, che prescrive una certa condotta, è del tutto indifferente: chi disobbedisce non fa quello che dovrebbe fare o fa esattamente il contrario.
In genere, la disobbedienza è volontaria e nasce da una scelta libera e consapevole. Ad esempio: mi dicono che devo fare i compiti, ma scelgo di giocare con gli amici. Chi disobbedisce sa che, se scoperto, subirà le conseguenze delle sue azioni e verrà punito.
A meno che...
A meno che non dimostri - e tocca a lui dimostrarlo, fatto salvo il caso che neghi di avere disobbedito - di averlo fatto per una ragione valida, che preserva l’integrità dell’ordine, che corregge un ordine sbagliato o che si oppone ad un ordine ingiusto.
Qui viene il bello. L’ultimo dei casi prospettati inverte le posizioni: l’accusato diventa accusatore e addebita al comando o a chi lo è impartito una colpa che sta a monte della sua presunta violazione, che non è più tale ma diventa un gesto nobile.
A questo punto, il gioco è fatto: la disobbedienza è un atto doveroso, anzi, morale. Il comando è illegittimo, oppure chi ha impartito l’ordine è un criminale. Tutto bene, tutto giusto. A meno che... A meno che la qualificazione di ingiustizia appena citata sia rimessa al disobbediente o ai suoi amici e non a un terzo, che giudica in modo imparziale.
Insomma: da qualunque parte state, non scrivete sui muri. A meno che vi sia venuta voglia di disegnare il volto di Ernesto Che Guevara con tanto di sigaro alle labbra. Con lui, infatti, siete salvi. A prescindere.
Aggiornato il 03 luglio 2019 alle ore 10:54