
Il caso di Noa Pothoven, la ragazza olandese che con la sua scelta ha scosso le coscienze di mezzo mondo avendo richiesto dopo anni di sofferenze psichiche l’eutanasia legale nei Paesi Bassi, ha riaperto un nodo sulla regolamentazione del fine vita, sul cosiddetto testamento biologico. Così, siamo andati a cercare chi, nel nostro Paese, ha fatto di questo tema tanto delicato da spaccare da sempre l’opinione pubblica del mondo intero, una missione di vita. Stiamo parlando di una donna che ha vissuto tutta una vita accanto all’uomo che ha amato.
Wilhelmine Shett, per gli amici Mina, incrocia casualmente Piergiorgio Welby, in uno dei posti più suggestivi di Roma nel 1973, sotto una delle statue più significative della città, il monumento di bronzo di Giordano Bruno di Ettore Ferrari del 1889, che ancora ci fa pensare a roghi, Papi, vittorie attese, sconfitte, desideri di rivalse, sguardi lontani in assenza di confini, eppure così a portata di mano, limiti così umani. Mina, con Piergiorgio avrebbe cominciato qualcosa di così tanto grande, importante, da dividere per decenni opinione pubblica, clero, benpensanti, malpensanti, nullafacenti, doppiogiochisti, politici e politicanti, opinionisti, poltronisti, guardoni, giudici, giustizialisti della prima e dell’ultima ora come la lotta, la guerra contro l’accanimento terapeutico e l’eutanasia.
Mina oggi prosegue incessantemente, anche dopo la morte del marito Piergiorgio, la sua battaglia. Partecipa come testimonial a dibattiti pubblici, convegni, andando dove è chiamata, parlando di temi come l’autodeterminazione della persona, le scelte in vita e del fine vita, nonché l’importanza di un’assistenza adeguata alla persona malata e l’indipendenza della persona disabile, insieme ad altri amici attraverso l’associazione “Luca Coscioni”, di cui è co-presidente dal 2011. Un’associazione che si batte per la libertà di ricerca scientifica, per le libertà civili, per tutte quelle riforme ancora da conquistare e quelle da far rispettare, perché i diritti già acquisiti siano assicurati.
Mina e Piergiorgio si incontrano a Roma, mentre lei si trova in viaggio nella capitale nel periodo pasquale, con un gruppo di parrocchiani provenienti da San Candido, vicino Bolzano. Lei, in mano un libro antico su Roma, gira da sola, per i vicoli del centro e non riesce più a districarsene. A Campo de’ Fiori, sotto la statua del filosofo, nel luogo stesso dove venne arso vivo, decide di chiedere informazioni ad un uomo perché deve ritrovare i suoi amici. Quell’uomo è Piergiorgio, già da tempo affetto da distrofia muscolare. Lui l’accompagna per un tratto, fino a Piazza Venezia. Pensa sia tedesca, ma lei è un’italiana che parla tedesco. Perché i bolzanini studiano e parlano il tedesco sin da piccoli.
L’uomo zoppica un po’. Lei non lo vuole disturbare, ma lui insiste ad accompagnarla. Si prendono in giro come fanno i giovani che si piacciono istintivamente. Prima di lasciarsi si scambiano il numero di telefono di casa e così di tanto in tanto capita loro di sentirsi. Mina torna ancora a Roma. E la volta successiva ha le mani piene di regali della sua città: speck, strudel, biscotti fatti in casa, per nutrire la nuova amicizia. Poi ha conosce la mamma di lui. È fatta.
Mina ed io abbiamo fatto una chiacchierata, perché così mi piace definire questo incontro, un tè con un’amica.
Com’era Piergiorgio, come lo vedevi? Era più giovane di otto anni, era altissimo, aveva i capelli lunghi. Era completamente diverso da te, tu insegnavi a scuola. Hai precorso i tempi. Come ti è saltato in mente di frequentare questo strano personaggio in quei primi anni Settanta?
Non so, ma mi ha colpito. Ci siamo scritti a lungo, aveva una scrittura insicura e mi toccava decifrare le sue frasi. Ma, ad un certo punto, mi ha dichiarato il suo affetto, mi ha chiesto se potevamo stare insieme. Io ci ho pensato un po’ e poi ho detto di sì. Mi sono veramente innamorata. Parlavamo di tutto, di letteratura, di filosofia, facevamo i confronti fra la letteratura italiana e quella tedesca. A lui piaceva Nietzsche a me no, io preferivo Kant. Poi è venuta fuori la sua tossicodipendenza, di cui ha parlato pure in un suo libro e mi ha raccontato tutta la sua storia.
Che tipo di reazione hai avuto alla notizia della sua tossicodipendenza?
Nessuna in particolare, perché avevo già lavorato con i tossicodipendenti e vedevo tanti genitori e figli coinvolti. Sapevo che tanti erano riusciti a disintossicarsi ed erano riusciti a trovare un lavoro, ad avere una vita regolare. Avevo fiducia in lui. Un giorno mi ha detto di essere molto triste, perché un suo amico era morto in un incidente di moto e avrebbe voluto essere al suo posto. Il suo amico aveva lasciato una moglie giovane ed un figlio, non era un tossicodipendente, aveva un lavoro. Questo lo aveva angosciato moltissimo. Non è stato facile consolarlo. Ho deciso di trasferirmi a Roma e gli ho proposto così di sposarlo.
Avevi la sindrome della crocerossina?
Ero solo innamorata. Volevo stare con lui e basta. Mi piaceva il suo modo di essere. La sua mamma era molto presa da lui che spesso non riusciva nemmeno ad alzarsi dal letto. Aveva già smesso di farsi. I suoi genitori lo avevano portato da un medico in un centro SerT, il Servizio per le tossicodipendenze. Gli davano il metadone che ritiravano lì, ma non riuscivano a diminuirglielo.
Ti ha raccontato perché ha iniziato a drogarsi?
All’inizio andava alla Uildm (Unione italiana lotta alla distrofia muscolare), perché chiedeva qualcosa che gli desse un po’ di forze, di vitalità. Così, gli hanno dato delle medicine che non gli facevano granché. Poi, una volta un suo amico gli ha dato qualcosa in una bustina e gli ha detto di provare ad iniettarsela perché lo avrebbe rilassato. Ma dopo poco tempo non ha più potuto farne a meno. È andato avanti per anni. Si comprava la droga con la vendita dei quadri che faceva. Li vendeva a cinquemila lire, ma non bastava. Così, ha cercato disperatamente di disintossicarsi con l’aiuto della sua famiglia. Quando sono arrivata io ho cercato di fargli fare altro, di uscire dalla sua routine. Ascoltavamo la radio, abbiamo fatto un corso di fotografia insieme, con la sua Minolta, ci interessavamo del controluce delle sovrapposizioni di foto, compravamo riviste e lavoravamo. Abbiamo organizzato esposizioni di fotografie e dei suoi quadri. Io ho cominciato anche ad insegnare il tedesco in una scuola privata di Roma, lui non voleva che gli stessi “sempre attaccato”, così mi diceva. Allora, mi trovai questa occupazione che mi ha dato molte soddisfazioni, con dei ragazzi che poi hanno fatto gli esami al Goethe Institut e sono riusciti molto bene nella vita. Piergiorgio ha scritto anche delle opere teatrali. Ho potuto vedere Ocean Terminal recentemente, uno spettacolo meraviglioso, interpretato magistralmente da Emanuele Evezzoli. Porta da sette anni in giro questa pièce nei teatri per il mondo. Con lui il nipote di Piergiorgio, Francesco. A breve saranno in Spagna, poi torneranno a New York. Il tema è molto forte e coinvolge lo spettatore in un modo assoluto. Nella sala per un’ora e venti minuti non si sente volare una mosca, si viene rapiti dalla performance di Emanuele e Piergiorgio che ti sottrae ad altri pensieri per portarti nel loro mondo: “Questi giorni convulsi di rapina non li hai capiti mai. Un Dio raramente capisce. Non ne ha bisogno”.
Mi racconti dell’ultima mattina di Piergiorgio?
Il 20 dicembre 2006 è stata l’ultima colazione di Piergiorgio. Lui era sereno perché sapeva che finalmente il suo strazio sarebbe finito, per me non era lo stesso.
Piergiorgio credeva nell’anima, nello spirito?
Qualcosa c’è che ti tiene vivo. Lui era lucreziano. Amava farsi leggere sia la parte in latino che in italiano. Se uno vuole credere che ci sia qualcosa dopo la morte va bene, “se sarà, ho vinto la lotteria – diceva – se ci credi, se no pazienza” lasciava al caso. Il primo libro che ho letto con lui di filosofia è stato Il caso e la necessità di Jacques Monod. Io sono cresciuta con questo insegnamento: non è sempre il caso, ma ogni caso c’è perché c’è una necessità di poterci passare. Se ripenso a quei giorni, io sto elaborando adesso la sua sofferenza e piango perché, per molto tempo, non ci pensavo più. Ricordavo solo le cose buone e che lui aveva ottenuto di poter morire, lui cercava con i suoi occhi gli occhi degli altri. Sono venuti Marco Cappato e Marco Pannella, che era già venuto due volte qualche tempo prima per fermarlo, perché ottenessimo prima la legge, così avrebbe potuto morire senza fare una “disobbedienza”.
Incredibile, il più grande dei “disobbedienti” che abbiamo avuto in Italia ha chiesto a Piergiorgio in quello stato di “non disobbedire”?
Sì e di avere prima una legge per poter aiutare tutti gli altri. Di provare a resistere perché se lui fosse morto prima, il Parlamento avrebbe tardato questa opportunità. Gli diceva “se sei vivo aiuti la legge”. Ma Piero lo ha cacciato via, ha cercato di emettere proprio un suono preciso, si capiva chiaramente il suo “vaffanculo”! Marco è andato via triste, non era arrabbiato, voleva solo essere d’aiuto anche agli altri, che soffrivano. Però ha capito. Ha detto “Se Piergiorgio lo vuole, io lo aiuterò”.
L’anestesista che si occupò di somministrare a Piergiorgio i sedativi, durante la conferenza stampa che si è tenuta il giorno successivo alla sua morte, ha dichiarato di averlo aiutato a morire in tua presenza, della sorella Carla e dei compagni radicali dell’Associazione “Luca Coscioni”: Marco Pannella, Marco Cappato, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti e due medici del Belgio.
I due medici venuti dal Belgio hanno portato con loro, come stabilito, la medicina che poteva prendere se ci fosse stato bisogno. Piero, appena li ha visti, ha chiesto se c’era la medicina e loro gliel’hanno mostrata. Così lui è stato più contento. L’Ordine dei medici di Cremona ha confermato la piena legittimità del comportamento etico e professionale del dottore, che è stato indagato per omicidio del consenziente, ma poi in seguito definitivamente prosciolto. Ho concordato con lui che ad un certo punto gli avrei abbassato il letto, poi l’ho baciato e il medico lo ha sedato. Si è addormentato immediatamente. Subito dopo non è riuscito più a respirare, ovviamente. Io ho abbassato il letto come gli avevo promesso e il medico si è preoccupato, perché tremava ad ogni mossa. Ricordo che quel pomeriggio Piergiorgio mi disse di non piangere, che io ero un soldatino e che dopo avrei capito. Questa cosa che dopo avrei capito me l’aveva ripetuta un sacco di volte.
E hai capito?
Sto capendo adesso di più. Come tutte le volte che vedo lo spettacolo Ocean terminal, che mi aiuta molto, sono tutte parole di Piergiorgio. Dopo l’evento conclusivo io pensavo di voler sparire e non farmi più vedere in circolazione. Ma lui mi aveva detto: “A mamma chi ci pensa? Sai che non vuole stare con suo genero!”. La mamma di Piergiorgio è mancata due anni dopo il figlio, nello stesso giorno. Il medico è stato esonerato da qualsiasi responsabilità dall’Ordine dei Medici di Cremona. Sai che non hanno concesso il funerale a Piergiorgio?
Non penso che a Piergiorgio questo importasse, anche se le motivazioni non mi sembrano condivisibili.
Non credo proprio. Comunque è morto il suo corpo, non lui. Noi non moriamo e non veniamo lasciati morire da chi ci ama, da chi ci ha conosciuto…
Come l’ha presa la sua mamma tutta questa storia?
All’inizio lei diceva sempre: “Perché non lo ascoltano?” ed io mi arrabbiavo, mi chiedevo come potesse sperare sua madre che il figlio morisse. Poi ho capito. Un’altra di quelle cose che poi si capiscono.
Quello che succede nella testa di un genitore consapevole di avere un figlio troppo grave e il suo amore non è sufficiente a sostenerlo e la realizzazione e la paura che il “dopo di noi” porterebbe, inevitabilmente, un ulteriore squilibrio, non possiamo saperlo.
Infatti, mi sembrava che una madre non potesse mai volere la morte di un figlio. Invece, poi mi sono data una spiegazione. Quando non si riesce più a portare avanti le cure ci sono problemi che non riusciamo a comprendere, non sono alla nostra portata.
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Mina Welby e Marco Cappato sono stati imputati per aver accompagnato e aiutato Davide Trentini a raggiungere la Svizzera e ottenere il suicidio assistito, dunque per il reato di cui all’articolo 580 del Codice penale (istigazione o aiuto al suicidio), una forma di eutanasia, legale in Svizzera. Si sono autodenunciati presso la stazione dei carabinieri di Massa, mettendo in pratica una disobbedienza civile avviata con l’associazione Sos “Eutanasia Soccorso Civile”. L’obiettivo della disobbedienza civile è quello di modificare alcuni punti del nostro codice penale e che venga approvata una legge sul fine vita grazie all’attivazione della giurisdizione nei casi Welby ed Englaro ed infine con la legge sul testamento biologico, a partire dalla modifica dell’articolo 580 del Codice penale che, fra l’altro, recita: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”.
Gli imputati Mina Welby e Marco Cappato hanno richiesto il giudizio immediato, ovvero di andare direttamente al processo con rito ordinario saltando l’udienza preliminare. Mina Welby e Marco Cappato sono giudicati, quindi, ex articolo 110 e 580 comma 1 del Codice di procedura penale, per istigazione o aiuto al suicidio sotto forma di concorso. La prima udienza si è svolta a novembre 2018 con la testimonianza della famiglia di Davide Trentini. Il 14 gennaio 2019 sono stati ascoltati gli imputati Mina Welby e Marco Cappato. L’udienza di discussione è rinviata all’11 novembre 2019, dunque, successivamente, all’udienza della Corte Costituzionale che ha dato tempo al Parlamento fino al 24 settembre per legiferare e colmare il vuoto di tutele in tema di diritto al suicidio assistito.
“Aspetti ansioso che da un momento all’altro il cielo si squarci e un triangolo al neon con un occhio al centro ti illumini e una voce tonante gridi: “Nessuno tocchi Caino! Beh. Non proprio nessuno tocchi Caino, basterebbe che dicesse: Qualcuno dia una mano a Caino. Ma nessun grido, nessuna complice partecipazione, nessuna amorevole pietà. Sei un ricatto vivente, uno scomodo Memento mori” (Da Ocean terminal).
@vanessaseffer
Aggiornato il 26 giugno 2019 alle ore 17:12