A “Piazzapulita” ancora il tormentone del “restiamo umani”

“Non perdetevi l’inizio della trasmissione con un reportage che vi rimarrà davvero nel cuore”.

È cominciato così l’ennesimo tentativo, ormai recidivo e recidivante, di Corrado Formigli a Piazza Pulita ieri sera di ritornare, come le mosche sullo sterco di bue, sull’epopea comunicativa della sopravvivenza del sentimento di umanità nei confronti dei poveri migranti. Il servizio - perché chiamarlo reportage offenderebbe ben altri reportage che vanno in onda su altri canali - comincia con il dolce visino paffuto della bimba sudanese a commuovere sin da subito qualunque madre e qualunque padre del mondo con l’uso sapiente di quella retorica del condizionamento psicologico inconscio del provare compassione per il bimbo, il povero, il malato, il sofferente e per similitudine di ingiusto e invincibile disagio, il migrante.

Poi la storia del salvataggio del barcone da parte della Ong, gli applausi, i racconti coi musi lunghi e il tono severo. Tre anni trascorsi in Libia, mesi di prigionia, lo spostamento verso Roma, il viaggio di ben dodici ore in pullman, l’arrivo alle cinque di mattina che alla giornalista abituata alle minicar dei figli di papà deve essere sembrata la versione moderna dell’Ulisse di Joyce, dimenticando che esistono generazioni di lavoratori che alle cinque sono in piedi già da un’ora o più per recarsi al lavoro o alle cinque del mattino hanno appena finito il loro turno. Davvero, complimenti, l’arte di far diventare l’ovvio impensabile.

Ma ancora: apprendiamo da uno dei migranti intervistati che siccome la moglie era all’ottavo mese di gravidanza, una volta sbarcati in Italia non le hanno preso le impronte digitali. Come se la gravidanza fosse diventata uno scudo contro la legalità. Buono a sapersi, o almeno questo è quello che pensano, cioè di farla franca, come al solito. Ecco perché, forse, nessuno dice mai, o perlomeno io non l’ho mai sentito dire a nessuno, che mettere su un barcone una bambina di due anni e una moglie incinta dopo aver pagato migliaia di dollari alla criminalità organizzata dovrebbe essere considerato altrettanto criminale e in quanto tale punito e severamente, non premiato.

Difficile anche pensare che una moglie incinta, visto che la bambina poi è nata, possa esser vissuta tre anni in prigionia in Libia con il marito, ma ormai ce l’hanno spiegato che cosa gli insegnano a raccontare i volontari una volta arrivati sulle navi della speranza. In assenza di ogni possibile verifica il messaggio subliminale è passato con una zoomata sul sorrisetto, un dettaglio sul pupazzetto regalato alla povera bambina prima sfortunata e ora finalmente proiettata verso un radioso futuro in chissà quale accogliente città europea.

Ma, è vero, in Darfur c’è la guerra, la cicatrice dietro l’orecchio mostrata con orgoglio ne è la prova provata. Sempre in assenza di verità, immaginiamo, attingendo dall’Iperuranio, che chissà quale machete abbia tentato di sradicare il povero orecchio del povero migrante. Ma noi siamo cattivi, noi che, ormai è chiaro perché lo dicono loro, non riusciamo a restare umani, dobbiamo piegarci alla narrazione della verità immaginata, come tutti.

“Ma che effetto ti fa quando vedi il mare?”. Eccola qua, puntuale e mai originale l’evocazione del terrore che unisce tutti gli uomini di buona volontà. E non potrebbe non essere così a meno di non essere degli spietati trafficanti di uomini che ti buttano sopra un gommone sgonfio a farti morire. E certamente non siamo noi.

Il momento clou arriva a Mentone, quando la cattiva polizia di frontiera francese, dipinta manco fosse la Gestapo, ci riporta ai racconti di guerra dei nonni, il consiglio della barista di Ventimiglia di spostare le valigie per non far vedere che viaggiano con troppe borse, il trucchetto di parlare in francese per intortare i poliziotti in borghese e il look ripulito, sempre su consiglio della barista lookologa di Ventimiglia, hanno funzionato, sono passati, si sono salvati, ancora. E allora via su un altro bel treno fino a Lione, ma l’imprevisto drammatizzato è dietro l’angolo: in Francia è festa, non ci sono treni. E così, un’altra gentile signora invita i nostri eroi a dormire a casa loro, perché ci ricorda che non c’è nessuna legge che ti impedisce di ospitare qualcuno a casa tua. Che è vero, perché in Francia esiste una sorta di depenalizzazione per precedenti giurisprudenziali rispetto alle previsioni della normativa europea chiamata “délit de solidarité”. In Francia, ma non in Italia, dove a determinate condizioni potrebbe anche configurare un’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma è chiaro che tutti questi e queste che da anni intercettano i migranti per dargli vitto, alloggio e un pasto caldo per la bambina a casa loro lo fanno sempre gratis, sono tutti dei benemeriti, sono tutti dei santi e chiunque non lo faccia o non lo faccia più anche a Lampedusa, dove chissà perché ha stravinto la Lega, è un porco schifoso e guai a metterlo in dubbio. E anche la parola “clandestino” deve farci schifo, non dobbiamo più vivere in un Paese dove le cose si chiamano con il loro nome, no.

Dopo questo “reportage” interessantissimo, davvero, cose mai viste, mai sentite, mai neanche immaginate, e dopo le giuste osservazioni del filosofo Massimo Cacciari, che in quanto filosofo almeno la testa la sa usare, ci ha pensato Gianrico Carofiglio a farci cambiare canale con la solita frasetta inconfutata e senza contraddittorio, come si usa ormai a La7.

Il consenso di Matteo Salvini è in una botte di ferro.

Aggiornato il 07 giugno 2019 alle ore 11:29