Sindacato unitario o grande Cgil?

L’appello del nuovo segretario della Cgil, Maurizio Landini, per unire organicamente le tradizionali confederazioni dei lavoratori italiani ha suscitato da più parti interesse, apprezzamento e persino qualche entusiasmo, forse frettoloso, di chi ha intravisto l’anello di congiunzione vincente per un felice riavvicinamento, dopo l’aborrita parabola renziana, tra il mondo del lavoro e il Partito Democratico di Nicola Zingaretti.

A tutto ciò ha fatto però da contraltare qualche scontata risposta diplomatica e una certa freddezza di buona parte degli altri dirigenti sindacali delle organizzazioni consorelle, a cui l’invito era rivolto, è che è apparso a molti di loro qualcosa di simile ad uno spiacevole preannuncio di sfratto.

La spiegazione è abbastanza semplice. L’invito di Landini non è rivolto a quelle che lui stesso definisce le “burocrazie sindacali” (in primis quella romanocentrica) ma invoca “un movimento dal basso”, a partire dai luoghi di lavoro, dove la Cgil dispone di una forte presenza di militanti e delegati. Proprio da lì potrebbe nascere oggi una “spinta propulsiva” in grado di guidare un processo di unificazione e di dar vita ad una nuova grande confederazione sindacale che si richiamerebbe alla Cgil unitaria del 1944, nata dal Patto di Roma sotto l’impulso del Cln. Nel contesto attuale ciò renderebbe possibile l’affermarsi di una tendenziale egemonia della Cgil e non solo nell’accezione gramsciana del termine. Del resto, ha sottolineato Landini, non senza qualche buona ragione, perché non metterci insieme se siamo d’accordo su tutto?

In realtà nei tempi magici del sindacalismo italiano il mettersi insieme era giustificato non tanto dalla comunanza di opinioni, quanto proprio dalla differenza di identità e di interessi, che rendeva il sindacato unitario una forza rappresentativa dell’intero mondo del lavoro. L’unione tra uguali accresce la forza, ma l’unione tra diversi la può moltiplicare. Oggi, senza il valore aggiunto di nuovi orizzonti strategici per il sindacato italiano, un progetto di unità organica risponderebbe in primo luogo agli interessi della Cgil e del suo segretario. Maurizio Landini conferma le sua qualità di leader pragmatico, arricchita dalla sua esperienza operaia e con una forte connotazione al cambiamento sociale, che ne fa agli occhi di molti militanti della Cgil, una sorta di Alceste de Ambris dei tempi attuali, un interlocutore da cui si può dissentire ma che è difficile ignorare.

Le difficoltà maggiori della “riunificazione” verrebbero dalla selezione dei nuovi gruppi dirigenti ad ogni livello , una buona parte degli attuali apparati si troverebbero nella poco invidiabile condizione di dirigenti e dipendenti coinvolti in una dolorosa operazione aziendale di fusione o di ristrutturazione. Roba da far tremare le vene ai polsi, poiché non si potrà certo ripetere l’esperimento, tentato negli anni Settanta, facendo una semplice sommatoria di individui e di incarichi ad ogni livello e mantenendo in vita l’esistente. Questa oggettiva difficoltà rende problematica la realizzazione, in tempi ravvicinati, di quello che impropriamente spesso si definisce “sindacato unico”: la Costituzione garantisce infatti la libertà e il pluralismo sindacale. Del resto a Cgil, Cisl e Uil si affianca uno schieramento articolato di organizzazioni espressione del tradizionale sindacalismo autonomo o che si richiamano al più recente sindacalismo di base, la cui presenza è comunque significativa ma non uniforme. È evidente che il sindacato unico non è riproponibile, e non solo per il precedente storico del Patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925. I modelli anglosassoni lo prevedono, ma la potestà di decidere è affidata ai lavoratori interessati in ambiti aziendali, quindi è frutto di una scelta democratica , sia pur di natura maggioritaria che è comunque ben diversa dalla rappresentanza proporzionale su cui si fonda il modello sindacale del nostro Paese.

Sarebbe invece possibile la costruzione di una grande confederazione che convive con altri sindacati “minori”. Possibile, forse opportuna, ma non probabile perché, come già ricordato, gli attuali assetti organizzativi richiederebbero un progetto di razionalizzazione doloroso e impraticabile.

Ma il punto più vulnerabile è la mancanza di un’azione sindacale rivendicativa coerente con una efficace politica di sviluppo, e le difficoltà ad affermarsi di un’anima progettuale capace di innovare profondamente le tradizionali politiche contrattuali adottando modelli articolati e flessibili, estendere e rafforzare un efficace welfare integrativo accanto ad uno Stato sociale sempre più in affanno.

Altrettanto necessario è un progetto per la rappresentanza che affermi in via prioritaria l’unità delle regole per legittimare l’effettiva rappresentatività delle parti sociali, imprenditori compresi. Lo strumento di accertamento di tale rappresentatività esiste già ed è il modello delle rappresentanze di base liberamente elette e di tutte le forme di democrazia diretta o rappresentativa praticate nei luoghi di lavoro.

Poiché in un contesto di pluralismo non si può affidare alle parti il diritto esclusivo di reciproco riconoscimento (valga per tutti l’esempio dei contratti “pirata” sottoscritti da organizzazioni fittizie), né si può pensare di attribuire alla magistratura il compito di decidere caso per caso, occorre una regola istituzionale, peraltro già esplicitata nell’articolo 39 della Costituzione.

Perché non si rivendica la piena attuazione di questo articolo della Costituzione più bella del mondo? Si teme forse l’intrusione invasiva delle istituzioni nelle organizzazioni sindacali ? Perché essere refrattari alle regole? Eppure uno dei passaggi centrali delle attuali richieste di Cgil-Cisl-Uil, che diffidano con qualche buona ragione dal salario minimo proposto dal ministro del Lavoro Luigi Di Maio, è proprio quello di considerare come retribuzione minima quella indicata nei Contratti collettivi Nazionali di Lavoro. Esattamente quel che avverrebbe dando piena attuazione al ben noto articolo 39.

I gruppi dirigenti sindacali, se vogliono portare avanti un progetto concreto di unità sindacale senza farne un uso semplicemente (come si dice oggi) di marketing, devono dare risposte convincenti a questi interrogativi. Comunque sarebbe un errore far cadere nel vuoto la “provocazione” del segretario generale della Cgil.

Aggiornato il 10 maggio 2019 alle ore 11:09