
Anche quest’anno, come sempre in occasione delle celebrazioni dell’anniversario della Liberazione, si sono contrapposte diverse opinioni sull’evento che pose fine all’occupazione nazista nel nostro Paese. Opinioni in talune circostanze sfuggite di mano come nel caso degli “onori al Duce” tributati da alcuni tifosi di calcio a Milano o delle ripugnanti manifestazioni inneggianti a Tito da parte di nostalgici di quel regime a Trieste.
Anche in ambito istituzionale in qualche città la situazione è sfuggita di mano: a Viterbo i rappresentanti militari hanno preferito abbandonare la cerimonia a causa di allusioni del presidente provinciale dell’Anpi nei confronti dei militari in genere e dei massacri di civili compiuti in passato e asseritamente ancora perpetuati nelle missioni di pace. A Prato il questore ha preannunciato di procedere a denuncia dei locali rappresentanti dell’associazione partigiani per l’atteggiamento offensivo e ingiurioso manifestato verso la sua persona e quella del Prefetto.
Ogni anno l’anacronistica dicotomia torna alla ribalta ma grazie ai recenti sviluppi di un giornalismo storico più obiettivo oramai vi è una diffusa consapevolezza che le stragi commesse in nome della libertà non sono state così diverse dalle efferatezze fasciste. Le bande partigiane avevano ucciso persone innocenti sulla base di semplici sospetti o, nel caso di carabinieri e sacerdoti, sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Ovviamente la resistenza è stata condotta anche da forze moderate, spinte dai più nobili ideali, composte da militari, intellettuali liberali e cattolici. Gente che ci credeva davvero ma che costituiva una minoranza che non era riuscita ad imporsi neppure per evitare che su taluni ordini di operazioni venisse disposto che i prigionieri dovevano essere uccisi, anche se feriti e, qualora utili per gli interrogatori, giustiziati dopo tre ore.
Gli eccidi avvenuti molto tempo dopo il 25 aprile sono comunque ben difficili da spiegare e sono la dimostrazione che molte formazioni combattenti erano guidate da ben altri disegni che la liberazione nazionale.
Al fine di meglio interpretare le vicende di quegli anni oltre ai fatti storici dovrebbe essere effettuata un’analisi dei procedimenti giudiziari contro i partigiani imputati per fatti legati alla Resistenza ma giudicati come crimini di diritto comune, in quanto le formazioni giuridicamente non potevano ancora essere assimilate ai militari e come tali perseguite per reati di guerra.
Nei processi ordinari che seguirono, poi definiti nel loro complesso ‘alla resistenza’, confluirono accuse di omicidi commessi non solo da autori ‘in lotta contro il fascismo’, ma anche riconducibili a motivazioni diverse quali rapina, vendetta personale e odio di classe con il risultato che le condanne emesse furono rare e disomogenee anche a causa dell’amnistia Togliatti, di cui beneficiarono altresì migliaia di criminali fascisti. La stessa poneva una distinzione tra i fatti criminosi compiuti entro il 31 luglio 1945 e quelli avvenuti successivamente, riconoscendo la non punibilità dei combattenti per reati sino all’omicidio commessi entro quella data, spartiacque per considerarli uno strascico della guerra conclusa. Una sorta di esimente per avere usato le armi giunta sotto forma di amnistia cui potè confluire ogni fattispecie di reato non necessariamente collegata al conflitto.
Proprio per superare le gravi criticità giuridiche e le minori tutele dei civili emerse durante il conflitto, la Comunità internazionale nel 1949 giunse alla sottoscrizione delle Convenzioni di Ginevra. Esse, insieme al diritto bellico già esistente, costituiscono l’impianto del diritto internazionale umanitario e recano diversi articoli dedicati all’esistenza e alla condotta delle milizie civili e dei corpi volontari compresi i movimenti di resistenza, sino ad allora ignorati dalle norme. Fu deciso e codificato che tali formazioni per essere equiparate alle Forze armate con i relativi diritti e doveri che ne conseguono devono avere un comandante responsabile dei subordinati, indossare un segno distintivo riconoscibile, portare apertamente le armi e uniformarsi in operazione alle leggi e agli usi di guerra.
Traendo spunto da ulteriori criticità emerse durante più recenti conflitti, anche la giurisdizione ha subito delle evoluzioni. Con lo Statuto di Roma, epigono dei protocolli di Ginevra, è stata creata una Corte Penale Internazionale, al fine di perseguire gli individui sospettati di aver commesso crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Tale Corte lavora a titolo sussidiario, nel senso che interviene soltanto quando le autorità giudiziarie statali non vogliono o non sono nelle condizioni di effettuare seriamente e imparzialmente le inchieste o i procedimenti. Condizioni in cui si ritrovava l’Italia negli anni del dopoguerra.
Ad essa pochi anni fa si è rivolto Giuseppe Tiramani, figlio di uno dei molti militi della Guarda Nazionale Repubblicana trucidati nel piacentino dalle bande partigiane appartenenti alla brigata Stella Rossa. Il procuratore generale della Corte ha giudicato la richiesta ammissibile ed ha aperto un’inchiesta che purtroppo non avrà una possibile conclusione a causa dell’estinzione del reato per morte dei rei.
Aggiornato il 30 aprile 2019 alle ore 13:14