Riflettere sul rapporto tra mondo produttivo e istituzioni, è utile. Date le molteplici facce del tema, queste righe non mirano certo ad essere esaustive. Tuttavia biasimano alcune inopportune tendenze culturali e politiche, da tempo insediate nel nostro Paese. Con l’abusata farsa del “socialmente giusto”, già durante la cosiddetta “Prima Repubblica”, qualcuno ha ritenuto di avviare un processo denigratorio nei confronti di chi fa impresa. La tendenza ad assimilare i titolari d’azienda ad esseri con pochi scrupoli, è divenuta consuetudine di una certa cultura politica che, talvolta, si è spinta fino a definirli come sfruttatori. Fare impresa non è un fatto immorale. Ogni imprenditore, donna o uomo che sia, come ogni docente, operaio, impiegato, commerciante, giornalista, può essere onesto o disonesto, capace o incapace, sensibile o insensibile, generoso o avaro perché possiede, in quanto essere umano, dei caratteri personali ancor prima dei ruoli che ricopre. In base a specificità e attitudini diverse, ognuno viaggia ad una sua “velocità”, dunque, in attesa del sopraggiungere dell’onnipotenza, è innaturale “decretare” secondo fissazioni e pensare che sia giusto uniformare tutti, perfino alle velocità più basse. All’insegna dell’antico “divide et impera”, il giudizio sugli imprenditori è stato strumentalizzato da ideologie che hanno generato consapevolmente l’odio classista, perché interessate a non riconoscere all’impresa l’encomio sociale che merita.
L’impresa produttiva trasforma il costoso prodotto dell’evoluzione e della ricerca scientifica, in prodotto popolare e permette a tutti di godere di tecnologie e servizi che, diversamente, resterebbero lusso di pochi fruitori. È sprovveduta se non indegna una classe politica dirigente che farnetica di creare condizioni di equità sociale, deliberando di “spremere” le imprese come limoni. Aizzare prestatori d’opera e imprenditori, gli uni contro gli altri, è vile e pericoloso. Un’accorta politica sociale darebbe invece stimolo alla loro collaborazione. Operai, contabili, commerciali, tecnici, personale vario e imprenditori sono, con diverse mansioni, lavoratori della stessa squadra ma certa politica ha pensato di “mantenersi”, aizzando gli uni contro gli altri. Ciò ha procurato enormi guai e ha anche permesso alla cultura dell’avere, di sovrastare la più utile e intelligente cultura dell’essere. Asfissiando l’impresa, s’impoverisce e angoscia la società. Eppure, l’ingordigia della cosa pubblica grava sul mondo produttivo come una mannaia. Il nostro Paese ha una natura stupenda e genialità eccellenti, ma il potere politico continua a rapinarlo di ogni bellezza ed eccellenza. L’Italia tende ad andare via dall’Italia e, ciò che rimane, acquisisce sempre più una “strana” titolarità straniera. Il malaffare e la corruzione si sincronizzano più facilmente con le aziende gigantesche e multinazionali. In tal senso, è facile considerare come dispersive le mille realtà delle piccole e medie imprese. Dunque, meglio inventare gabelle per farle scomparire. Ma quando la politica sancisce ingorde regole in nome della giustizia sociale è assimilabile a una prostituta che si presenta “bene”.
Aggiornato il 31 gennaio 2019 alle ore 09:26