C’era una volta la Scuola

La scuola è una delle tante piaghe che l’Italia si trascina dietro da secoli. Essa nacque come istituzione statale dopo l’unità. Prima l’istruzione era monopolio della Chiesa e degli ordini religiosi. Con l’Illuminismo furono secolarizzate molte istituzioni scolastiche, si crearono scuole normali per la formazione degli insegnanti e nel 1809, a Napoli, Vincenzo Cuoco presentò un Progetto per la riforma dell’istruzione. Finché nel 1847, in Piemonte, fu istituito il Ministero dell’Istruzione Pubblica e l’anno dopo fu approvata la legge Boncompagni, a cui seguì, nel 1859, la legge Casati, che costituì la base dell’ordinamento scolastico italiano.

Con tutto ciò sul finire dell’Ottocento, in una lettera indirizzata al ministro dell’Istruzione Pubblica, Ferdinando Martini, Giovanni Pascoli si lamentava del livellamento culturale in atto nel suo tempo, rimproverando allo Stato di trascurare i giovani veramente e seriamente studiosi “per tener dietro ai molti che vogliono essere pregati e ripregati (carini!), come quelle tenere mammine che fanno freddare la minestra agli altri figli finché non si sia deciso di assaggiarla il bimbettino”. E’ il ritratto della scuola di oggi, nella quale si trascurano i più capaci, per star dietro agli ignoranti, agli svogliati, ai “migranti” e così via.

Anche Carducci si lamentava della scuola del suo tempo, per la commistione che c’era, pure allora, fra la scuola e la politica, che s’infiltrava dappertutto. Nel novembre del 1867 in una lettera indirizzata al ministro dell’Istruzione Pubblica protestava perché a sua insaputa gli era stata tolta la cattedra d’Italiano mandandolo a Napoli ad insegnare il Latino, e così concludeva: “Io non andrò a Napoli a fare il ciarlatano per il piacere d'un ministro a cui la politica fa commettere un’opera odiosa e ridicola”. E il 28 febbraio del 1879 nel Manifesto d'una Rassegna settimanale scriveva: “Gran parte dei mali dell’Italia derivano dal prevalere della politica in qualunque campo. Non possiamo nemmeno confortarci nelle condizioni della pubblica istruzione e della cultura. Le scuole non mancano, ma questa istruzione data dallo Stato con mezzi insufficienti in così larga estensione travia una gran parte della gioventù senza conferir nulla ad innalzare il livello della cultura nazionale”.

Nel 1905 Giuseppe Fraccaroli su L’educazione nazionale scriveva che nelle scuole italiane gli studenti imparavano “l’ozio, l’indisciplina, la menzogna, la frode, il disprezzo per la legge, per il sapere e per l’autorità”, mentre gl’insegnanti si mostravano “acquiescenti e indulgenti, con la vigliaccheria di cedere sempre alle raccomandazioni, alle pressioni, alle grida, alle minacce e alle pazzie”. E aggiungeva: “Gli insegnanti sono mal pagati, ma alcuni di essi sono pagati troppo per quello che valgono”.

Solo nel Ventennio la scuola italiana ha funzionato a dovere. Tanto per cominciare nell’edificio scolastico si entrava come in un santuario, in silenzio e bene ordinati. Le classi si riunivano nel cortile, in fila, una per una, e così entravano gli alunni nelle rispettive aule, restando in piedi sino a quando l’insegnante non dava l’ordine di sedersi. La scuola di allora era un modello sotto tutti i punti di vista: al posto dei banchi tavolini con le sedie, perché il banco era ritenuto “non adatto allo sviluppo fisico del fanciullo”, il quale veniva considerato nella sua integrità, animo e corpo, e conseguentemente riceveva un’educazione “globale”, sul piano fisico, intellettuale e morale. L’insegnante e l’alunno erano dei “collaboratori”, e in quanto tali “affratellati, più uniti per conquistare le forze del creato, misurarle e guidarle con gli apparecchi della scienza”.

Nel 1923, con la sua Riforma dell’educazione, Giovanni Gentile inneggiava alla libertà della scuola e dell’educatore. “Entrando in iscuola”, scriveva, “e accostandosi a quel fanciullo a cui non si deve soltanto magna reverentia ma lo stesso culto che a tutte le cose divine, l’educatore deve sentirsi molto in alto e perciò lasciar cadere tutte le sue preoccupazioni, le sue passioni e i pensieri prosaici del giorno. Il fine della vera educazione è quello di dare equilibrio allo spirito, di non opprimerlo sotto il peso delle cose umane così come delle cose divine, ma neppure di esaltarlo a dismisura, di non lanciarlo nel mondo astratto dei sogni, ma nemmeno di stritolarlo con la ferrea catena di una realtà inumana, di non disperderlo e frantumarlo, ma di dargli l’unità attraverso la molteplicità dell’esperienza e della vita”.

Gentile, come Pascoli, sosteneva la necessità di una assistenza particolare a quegli alunni che offrivano garanzia di far buona prova, e ciò per il bene del Paese, gli altri, gl’incapaci, i pigri e gli svogliati, dovevano essere diretti alle scuole di avviamento con indirizzo pratico - artigiano (Politica e Cultura). Selezione, dunque, nella scuola come nella vita, in base alle proprie possibilità e ai propri meriti. Oggi guai a parlare di selezione e di meriti: gl’insegnanti stessi scrivono appelli e petizioni contro una scuola “che discrimina docenti di valore e no”. “Tutti bravi”, commenta Giordano Bruno Guerri, “così come si pretende che siano uguali gli insegnanti che intendono il loro lavoro come una sinecura, un impiego a mezzo servizio, e quelli che lo svolgono con passione civile e culturale, aggiornandosi e amandolo. Penso che come in tutte le attività umane sia ora di discriminare finalmente i docenti fra quelli ‘bravi’ e quelli non preparati e pigri, allo stesso modo in cui si cerca di non affidare la costruzione di un ponte a ingegneri che ne abbiano prodotto uno che poi è crollato”.

Nel secondo dopoguerra la scuola di Gentile fu spazzata via e nel Sessantotto peggiorò ancora di più, per l’impreparazione, l’incapacità e la politicizzazione degli insegnanti. Nel 1962 fui commissario d’Italiano agli esami di abilitazione degli insegnanti e da alcuni di essi ne sentii di cotte e di crude, come quelle di candidati riportate in due libri dell’epoca, Insegnanti bocciati, di Evaristo Breccia, e Scuola sotto zero, di Luigi Volpicelli, nei quali spiccavano risposte allucinanti come queste: “La Signoria di Milano fu fondata da Lorenzo de’ Medici”, “La Cena delle Beffe è un’opera di Giordano Bruno”, “Antonio Labriola è stato il fondatore della Compagnia di Gesù”, “Giosuè Carducci era un forte oratore sindacalista dell’Ottocento”. Oggi agli esami di maturità uno studente ha detto che Kant era il “filosofo dell’aperitivo categorico”.

Alcuni anni fa su Il Giornale Paolo Granzotto scriveva: “Molti fanno gli insegnanti come potrebbero fare i postelegrafonici. Con la medesima assenza di passione, di senso della missione. Per altri ancora l’insegnamento rappresenta l’occasione per far politica, per indurre i giovani ad abbracciare una ideologia. Gli uni e gli altri hanno ridotto in macerie la nostra scuola. Oltretutto se s’avanza l’ipotesi di pagare meglio i più meritevoli, gli insegnanti gridano allo scandalo, al golpe fascista che intende ristabilire la meritocrazia, parola che suona bestemmia alle orecchie progressiste. Con la conseguenza di sfornare falangi di analfabeti, di somari che lo Stato dichiara ‘maturi’ (gli studenti italiani risultano essere i più ignoranti al mondo, come certificano decine di organismi internazionali del settore)”.

Nel 1973 in Stanno bocciando la scuola Ulisse Benedetti osservava che gli alunni, suggestionati o travolti dal fenomeno della contestazione anarcoide, non avevano più alcun rispetto per la scuola, e non solo per gli insegnanti ma per lo studio stesso e per tutto ciò che esso comportava: ordine, disciplina, dovere, ma anche soddisfazioni spirituali, morali e di carattere pratico, “che poi si riflettono positivamente nella vita sociale”.

Non facciamo gl’ipocriti e diciamo chiaramente che oggi la situazione non è cambiata, tanto più perché la stragrande maggioranza degli insegnanti sono donne, e lo dico non per razzismo ma a loro difesa, perché la donna, avendo il peso della casa e dei figli, dispone di minor tempo per curare la propria preparazione professionale. Un giorno (ero preside incaricato) feci presente ad una insegnante le lagnanze dei genitori dei suoi alunni e lei mi rispose: “Prima viene la mia famiglia, quello che io dò alla scuola è tutto grasso che cola”. Un’altra volta un direttore generale del ministero mi rispose testualmente: “Lei ha ragione, ma se io mi azzardo a rimproverare un professore mi si rivoltano contro tutti i sindacati”.

Maurizio Schoepflin ha scritto che nella scuola italiana “la cultura è stata soppiantata quasi completamente dalle preoccupazioni per i problemi sociali e le difficoltà psicologiche dei giovani, cosicché si è finito col chiedere al docente di assistere gli alunni piuttosto che di formarli. Scomparsa la cultura, nella scuola è entrato di tutto: la politica, la sociologia di bassa lega, ogni genere di cosiddetta educazione (stradale, alimentare, sessuale ecc.), le gite spesso più distruttive che istruttive, le occupazioni, le autogestioni, i dibattiti, e così via”.

A tutto ciò va aggiunto che i testi scolastici, dal formato enorme e poco maneggevoli, sembrano scritti per dei deficienti, almeno i libri d’italiano, di latino e di greco, in cui, ad esempio, per quel che riguarda le declinazioni, invece di offrire degli schemi, che sono più semplici, più chiari e più facili da memorizzare, si scrive, un rigo sotto l’altro: “La desinenza del nominativo è us”. “La desinenza del genitivo è i”. “La desinenza del dativo è o”. E così via, anche per i verbi. Una delle cause del livellamento degli insegnanti e del conseguente disfacimento della scuola è stata l’abolizione delle note di qualifica e del concorso per merito distinto, un istituto nato con la riforma Gentile che portava ad una accelerazione di carriera. “Per star dietro ai più”, come diceva Pascoli degli alunni, ci si è disfatti dei bravi insegnanti mettendo tutti sullo stesso piano. Il mito dell’egualitarismo ha portato mediocrità, pigrizia e menefreghismo fra gli insegnanti, che si oppongono a qualunque differenziazione della carriera dei docenti, e il merito è scomparso sia negli insegnanti che negli studenti, al punto che a un certo momento si arrivò a stabilire che gli alunni, preparati o non preparati, avessero comunque un voto non inferiore al 6 (il cosiddetto “6 politico”). Tutto ciò dispiace ad un insegnante onesto e preparato che per la scuola ha dato la vita nel senso pieno e concreto dell’espressione, stimato e amato da tutti, e che alla fine di ogni anno scolastico ha ricevuto dai vari presidi giudizi (le “note di qualifica”) come questo: “Docente dotato di non comuni capacità didattiche e di vasta cultura, si è sempre dedicato all’insegnamento con senso di responsabilità e notevole impegno. I risultati conseguiti sono sempre stati pienamente soddisfacenti. Carattere serio e ponderato, rispettoso verso i superiori, pienamente cosciente della dignità del suo ufficio, mantiene con i colleghi e le famiglie rapporti improntati a cordialità e reciproco rispetto. È benvoluto e stimato dagli allievi che ne seguono, con profitto, l’insegnamento”.

Credo di essere stato un caso se non unico rarissimo nella storia della scuola, sia come studente che come insegnante, per il numero di scuole che ho frequentato in ben 12 città e di quelle in cui ho insegnato, a partire dalla mia esperienza come istitutore, nel periodo dell’università, nel Convitto Nazionale di Reggio Calabria. A quel tempo i convitti nazionali erano una sorta di feudi medioevali in cui i Rettori-Presidi spadroneggiavano come se fossero a casa loro. Qui non posso entrare nei particolari, spesso allucinanti, che ho già raccontato altrove, dirò solo che dal Convitto Nazionale di Reggio Calabria passai a quello di Lovere, nel bergamasco (dove si respirava un’aria molto diversa), finché, appena laureato, ottenni una supplenza al collegio di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. L’anno successivo, finalmente, fui assunto come insegnante incaricato (oggi si dice “precario”!) al Convitto Nazionale di Roma, passando rapidamente dalla Scuola Media al Ginnasio e quindi al Liceo classico (due volte dovetti attendere per un anno quel passaggio per poter avere fra i miei alunni i figli di due rettori). Quando vi giunsi, nel 1950, il Convitto Nazionale di Roma era, nel campo della scuola, il fiore all’occhiello della Capitale, nutrendosi ancora di quei valori che il Fascismo aveva inculcato negli animi degli insegnanti e degli studenti. Lo dirigeva il Rettore-Preside Dante Affaticati, un educatore autentico e consapevole del ruolo fondamentale che svolgeva nella società. Quasi ogni mattina faceva il suo giro d’ispezione nelle aule scolastiche, assistendo alle lezioni e interrogando gli alunni. “Professore, non si scomodi”, diceva nell’entrare, “continui pure la sua lezione: io vado a sedermi là in fondo”. E andava a prendere posto in uno degli ultimi banchi, per non mettere troppo in imbarazzo l’insegnante. Oggi i ‘signori insegnanti’ inorridirebbero se un preside osasse fare una cosa simile, ma allora sembrava normale che un dirigente scolastico si rendesse conto personalmente della preparazione e dei metodi d’insegnamento dei professori. A quel tempo nei convitti nazionali soltanto le scuole elementari erano statali e io solo fra tutti gl’insegnanti del Convitto di Roma ero di ruolo: avevo vinto la cattedra d’Italiano e Latino in un’altra scuola, il Plinio Seniore, ma avevo chiesto e ottenuto di mantenere alcune ore al Convitto Nazionale, sia perché il Provveditorato consentiva che in aggiunta al numero di ore di insegnamento richieste dalla cattedra si potesse coprirne altre sino al raggiungimento di 24 settimanali, sia perché erano in corso le pratiche per la statalizzazione nei Convitti Nazionali della Scuola Media e dei Licei e io non volevo perdere la possibilità di avere in quella sede la mia cattedra, visto che abitavo a pochi passi dal Convitto. Nel quale ho rivestito quasi sempre l’incarico di vicepreside e sono stato per alcuni anni segretario del sindacato, contribuendo insieme ad un onorevole alla statalizzazione di tutte le scuole e all’accesso, come alunne esterne, anche alle donne. Dovetti quella cortesia a un provveditore che mi stimava molto al punto che mi affidò uno dei suoi figli come alunno privato e poiché abitava all’Eur il suo autista veniva a prelevarmi e poi mi riaccompagnava a casa. Ho avuto come alunno privato, naturalmente senza alcun compenso, anche il figlio di un Rettore del Convitto Nazionale di Roma, perché per lui io ero il non plus ultra dei professori. Tanto ciò è vero che un giorno la Rai mandò a riprendere una mia lezione sotto la regia di Pippo Baudo e di Oreste Lionello. Un’altra prova di stima la ebbi dal preside del liceo scientifico Castelnuovo, Giovan Battista Salinari, un vero galantuomo (era comunista ma non ha mai fatto politica nella scuola), il quale, pur sapendo che ero stato un “repubblichino”, mi era affezionato, direi addirittura ‘attaccato’ come a nessun altro insegnante (compresi Enzo Siciliano e Alberto Asor Rosa, che pure insegnavano in quel liceo). Spesso s’intratteneva con me passeggiando lungo il corridoio, tenendo il suo braccio sopra la mia spalla. Una volta, in quella spola che facevo tra una scuola e l’altra durante la ricreazione, essendo io arrivato dal Convitto quando l’ora di lezione era già iniziata, mi disse: “Non ti preoccupare: se tardi ci vado io nella tua classe”. Un giorno, poiché alcuni genitori si lamentavano degli insegnanti d’Italiano perché i loro giudizi sui temi dei figli erano ingiusti o faziosi, mi disse: “Tu sei molto equilibrato: devi farmi il favore di leggerli e darmi il tuo parere”.

Ho raccontato questi episodi personali (che sono una minima parte della mia carriera scolastica) per dare un’idea di come sarebbe la scuola se tutti gl’insegnanti sentissero veramente il loro compito come una vocazione e una missione. Ora il Convitto Nazionale di Roma si trova nelle mani di un rettore che si è presentato come un Grande Riformatore, che ha in mente progetti faraonici, fra cui quello di trasformare i Convitti Nazionali in Convitti Internazionali, ma che dopo più di due anni che ne è stato richiesto (con 3 mail, tutte senza alcuna risposta) e con successive e varie telefonate alle sue segretarie, non ha ancora concesso un appuntamento ad un ex professore, unico superstite ultranovantenne dai tempi d’oro del Convitto Nazionale di Roma, né gli ha dato o gli ha fatto pervenire una risposta alla richiesta di poter presentare nell’Auditorium dell’Istituto un suo libro, Lettera a una scolaresca, scritto proprio sul Convitto Nazionale di Roma, quando quel professore è stato invitato più volte dal precedente Rettore e durante gli anni del suo insegnamento ha utilizzato spesso, dietro richiesta dei Rettori stessi, l’Aula Magna per conferenze e lezioni a tutti i convittori.

Aggiornato il 25 gennaio 2019 alle ore 11:21