“Basta con i trailer delle inchieste, la giustizia non è una serie tv”

“Le inchieste giudiziarie non sono serie televisive e quindi non si capisce perché ormai ogni procura italiana si senta autorizzata a mandare in onda nei principali telegiornali i trailer delle indagini”.

L’avvocato Renato Borzone, candidato alla presidenza dell’Unione delle camere penali alle prossime elezioni che si terranno nella seconda metà del prossimo mese di ottobre, ha le idee ben chiare sui prossimi fronti del conflitto interminabile tra magistratura e avvocatura penale a proposito di quel che resta dello stato di diritto in Italia. E in questa intervista ce lo spiega meglio.

Avvocato Borzone, cosa sono i “trailer giudiziari”?

Abbiamo chiamato così i filmati degli investigatori che compaiono in televisione oppure on-line con il logo della rispettiva forza di polizia. Hanno lo scopo di “sponsorizzare” le inchieste giudiziarie e di propagandare l’attività della polizia giudiziaria. Il problema è che violano spesso il segreto delle indagini e la presunzione di innocenza delle persone indagate. In particolare, tramite questi video si contravviene alla Direttiva del Parlamento europeo 343/2016 che impone alle pubbliche autorità, nel dare notizie sulle vicende processuali, di farlo con modalità sobrie e rispettose del principio di presunzione d’innocenza. Abbiamo esempi preoccupanti: dalle immagini “montate” del furgone di Massimo Bossetti, a quelle dell’arresto di questo imputato, in ginocchio, tra due agenti; a quelle sulle tangenti del Teatro Petruzzelli di Bari, diffuse, secondo il Procuratore di quella città “per educare i cittadini”. Si tratta di una modalità informativa non prevista da alcuna disposizione normativa, allestita con soldi pubblici, predisposta di fatto a sostegno di una parte processuale e diretta a proporre una anticipata affermazione di responsabilità degli indagati prima e a prescindere dalla celebrazione del processo.

Che significa questa battaglia dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria delle camere penali italiane contro i trailer?

Abbiamo predisposto un video, reperibile su Facebook, che denuncia l’uso di questi trailers giudiziari per condizionare gli sviluppi processuali. Vogliamo sottrarre il processo alle pressioni mediatiche che arrivano oggi non solo dalla informazione “professionale” ma anche dagli investigatori stessi.

Questa storia della sponsorizzazione-spettacolo delle indagini sta sfuggendo di mano agli organi inquirenti?

Al contrario, da quanto detto risulta chiaro che le immagini spettacolo sono sapientemente controllate non solo per finalità autopromozionali dei singoli corpi di polizia, ma anche per “pompare” inchieste spesso prive di un convincente sostrato probatorio.

Lei è candidato alla presidenza dell’Unione delle camere penali. Con quale programma?

È necessario, tra l’altro, tenere accesa la fiammella della separazione delle carriere; tornare ad occuparsi della interferenza del potere giudiziario sulla politica; riaprire il fronte per il recupero delle garanzie nei processi di criminalità organizzata e della sostituzione del processo con le misure di prevenzione; riaprire la battaglia sul carcere e sulle misure alternative; specializzare l’avvocatura. Non sarà facile con le nuove posizioni governative, ma l’avvocatura penale deve essere un polo di attrazione delle battaglie liberaldemocratiche.

Che ne pensa di queste polemiche tra avvocati difensori e giornalisti? Possibile che il ruolo del difensore venga visto sempre come complice dell’imputato?

Fortunatamente non tutta la stampa e non tutti i giornalisti la vedono così. Ma una parte della informazione è divenuta “tifosa” delle impostazioni accusatorie. E quando si diventa tifosi non solo si smarrisce lo spirito critico ma si perdono i principi dello stato di diritto: l’avvocato diventa un complice dei suoi assistiti, un favoreggiatore della criminalità e viene additato al pubblico disprezzo. Si auspica l’idea di un avvocato succube, che “resta nei ranghi”, che non dà troppo fastidio, come accade nei regimi totalitari.

E della reazione corporativa del sindacato dei giornalisti cosa dice?

È il solito problema culturale. E in più non si ascoltano le ragioni degli altri.

Cosa occorrerebbe per far tornare in Italia lo stato di diritto?

È una domanda impossibile. Se si può rispondere con un slogan, allora abbiamo un deficit di cultura liberaldemocratica e ignoriamo la nozione stessa dello stato di diritto. Ormai si privilegia il moralismo d’accatto del populismo, anche giudiziario, e il Paese pullula di modeste imitazioni di altrettanti Robespierre, il quale aveva almeno una sua fisionomia culturale identificabile e una sua pur terribile grandezza.

Che idea si è fatto del nuovo Guardasigilli e delle sue dichiarazioni sul carcere?

Le posizioni sul carcere, sui diritti civili e di libertà, sulla tutela dei più deboli sono impressionanti e pericolose, perché rivelano pulsioni elementari tipiche delle sommarie concezioni “law and order”. Poi, come sempre, la politica va vista alla prova dei fatti, e quindi vedremo se ci saranno virate; occorre comunque dialogare con tutti. Ma la mia impressione è che ci aspetti un periodo molto triste sotto il profilo delle libertà civili.

Perché il Partito Democratico non ha avuto il coraggio di portare fino in fondo la riforma dell’ordinamento penitenziario?

Tante le risposte possibili. Sottovalutazione degli ostacoli; ingerenze esterne e interne; incapacità di comprendere che portare a conclusione una riforma del genere in una fase elettorale sarebbe stato impossibile. Si doveva chiudere tutto molto prima. Forse non vi è stato appoggio sufficiente dall’esterno. Sta di fatto che ora le opposizioni, di destra e di sinistra, hanno un’alternativa: mettersi ad inseguire i populisti con un populismo uguale e contrario (come appare ad esempio dalle reazioni all’inchiesta giudiziaria sullo stadio di Roma) oppure scegliere un rinnovamento e una rifondazione: una strada difficile, ma forse l’unica che può pagare nel tempo.

Aggiornato il 19 giugno 2018 alle ore 18:23