Pnrr è un futuro debito travestito da opportunità

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza viene raccontato come una straordinaria occasione storica, un atto di solidarietà europea senza precedenti, quasi un risarcimento per decenni di vincoli e austerità. Ma al di là della retorica celebrativa, il Pnrr è soprattutto un’operazione finanziaria complessa, che merita di essere analizzata per ciò che è, non per ciò che si vorrebbe fosse. Il Piano comprende 10 riforme e 46 investimenti in settori crucialigiustizia, Pubblica amministrazione, transizione ecologica, infrastrutture, digitalizzazione – ed è finanziato attraverso il programma Next Generation EU. È qui che nasce il primo equivoco: scambiare l’arrivo di liquidità per un trasferimento netto di ricchezza. È il classico errore di chi festeggia un prestito come se fosse un reddito. La liquidità ottenuta oggi dovrà essere rimborsata domani. Confondere il flusso di cassa con la ricchezza equivale a scambiare il saldo di un conto corrente per una posizione patrimoniale. Per anni il bilancio europeo è stato costruito secondo un criterio di pareggio: gli Stati membri contribuivano in base al Pil e ad altre risorse proprie, generando beneficiari netti e contributori netti. L’Italia rientra stabilmente in quest’ultima categoria. Primo punto fermo: l’Europa non ha mai “regalato” nulla all’Italia. Con l’introduzione di Next Generation EU, il paradigma cambia.

A un bilancio ordinario di circa 120 miliardi si affianca un indebitamento straordinario di oltre 700 miliardi, concentrato sul Dispositivo per la ripresa e la resilienza. È in questo passaggio che prende forma l’equivoco politico e comunicativo. Occorre distinguere con chiarezza tra prestiti e sussidi. I prestiti devono essere rimborsati integralmente: per lo Stato beneficiario il saldo finale è pari a zero, con l’effetto dell’aumento del debito pubblico. Non a caso, i primi 16 miliardi ricevuti dall’Italia sono confluiti direttamente nello stock di debito. Quanto ai sussidi, definirli “a fondo perduto” è tecnicamente improprio. Non sono a erogazione automatica né incondizionati: l’erogazione avviene in dieci rate semestrali, subordinate al conseguimento di milestone e target formalmente approvati. In assenza delle riforme previste – dalla giustizia alla concorrenza, dalla Pubblica amministrazione alla governance della spesa – le risorse non vengono autorizzate. Non sono dunque un regalo, né tantomeno garantite. Fino al 2026 l’Unione non richiede il rimborso del debito comune, in un periodo di differimento assimilabile a un preammortamento. Dal 2027 si aprirà la fase di rimborso, rendendo pienamente visibile la natura strutturale dell’operazione. L’Unione europea non dispone di sovranità monetaria e non può finanziare il Pnrr attraverso emissione monetaria. Per reperire le risorse, ricorre all’indebitamento sui mercati, mediante l’emissione di titoli collocati presso investitori privati. Per ottenere rating elevati e contenere il costo del debito, sono state previste garanzie che l’Unione non possiede autonomamente. Tali garanzie sono fornite dagli Stati membri, Italia compresa, sotto forma di credito di firma: un impegno giuridico che sostiene l’emissione del debito comune e attribuisce agli Stati il rischio ultimo.

Il Pnrr non è gratuito e non configura una forma di beneficenza. È uno strumento straordinario di politica economica europea fondato su debito comune, condizionalità rafforzata e un temporaneo differimento degli oneri finanziari. Presentarlo come una mera allocazione di fondi gratuiti significa confondere flussi di cassa con sostenibilità fiscale di medio-lungo periodo. Questo quadro si inserisce in una crisi più ampia. L’Unione europea non attraversa semplicemente una fase di difficoltà: la sua architettura istituzionale ha contribuito in modo strutturale al declino economico italiano. L’eurozona rappresenta un esperimento senza precedenti storici: una moneta unica priva di uno Stato, che ha prodotto stagnazione, divergenze macroeconomiche e perdita di sovranità nei Paesi periferici. Nessuna grande economia avanzata ha sperimentato, in tempo di pace, un blocco prolungato della crescita come quello che ha colpito l’Italia negli ultimi trent’anni. Produttività, redditi reali e investimenti pubblici sono rimasti compressi. In questo contesto, la democrazia si è progressivamente svuotata di contenuto: i cittadini possono alternare i governi, ma non incidere sulle politiche economiche fondamentali. Ogni deviazione dall’ortodossia viene immediatamente sanzionata dai mercati finanziari e dai meccanismi di sorveglianza sovranazionale.

Le radici della crisi italiana affondano dunque nella costruzione europea. Paradossalmente, l’Italia è stata tra i Paesi più allineati: liberalizzazioni estese, austerità prolungata, sacrificio della domanda interna e della politica industriale in nome dei vincoli esterni. I risultati sono evidenti. Non si tratta di una posizione ideologica, ma di una conclusione supportata da evidenze empiriche: l’architettura dell’Unione europea – e in particolare dell’euro – ha trasformato una crisi economica in stagnazione permanente. In assenza di strumenti monetari, fiscali e industriali, il Paese resta intrappolato in un assetto che penalizza sistematicamente le economie meno competitive. Se questo impianto non verrà messo in discussione, se non si aprirà una riflessione radicale sul recupero della sovranità economica, monetaria e politica come premessa di un reale coordinamento tra Stati, il declino resterà la traiettoria prevalente. In termini di teologia politica, l’Unione europea appare sempre più come un surrogato spirituale di una classe dirigente priva di visione storica: un’ideologia tecnocratica che ha sostituito la politica, svuotando la democrazia e trasferendo il potere decisionale lontano dai cittadini. In questo processo, l’Italia ha perso non solo la sovranità monetaria, ma anche la capacità di autodeterminare il proprio futuro. Il tanto temuto “default” non è un evento improvviso, ma l’esito prevedibile di un sistema fondato su moneta a debito privo di una piena unione politica. Finché questo assetto resterà invariato, l’instabilità non sarà una possibilità, ma una variabile strutturale del sistema. Finché resteremo prigionieri di una moneta a debito senza sovranità, il nostro destino economico non sarà deciso a Roma, ma a Bruxelles e nei mercati.

(*) Ricercatrice in materie economiche e finanziarie

Aggiornato il 19 dicembre 2025 alle ore 12:40