Qualche giorno fa, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha affermato che l’Europa è un gruppo di paesi “in decadenza” guidati da leader “deboli”. In effetti, questi paesi non hanno saputo per oltre due decenni affrontare alcuni problemi cruciali per la loro sicurezza e indipendenza: non hanno saputo predisporre una politica estera e una difesa comuni adottando, per esempio, un’efficace politica verso l’immigrazione clandestina e prendendo atto della necessità di un loro riarmo complessivo e, nel contempo, non hanno saputo rinunciare per molti anni alla loro dipendenza energetica da Mosca quando era già chiaro che le intenzioni di Putin verso l’Europa erano tutt’altro che amichevoli. In parte, quindi, Trump ha ragione, perché il non riuscire ad affrontare in maniera seria e responsabile questioni di vitale importanza è sicuramente un sintomo di decadenza.
La decadenza di un paese o di un gruppo di paesi non si misura però solo da fattori di questo tipo, ma anche dal coefficiente di autodistruttività che caratterizza un popolo o un insieme di popoli che fanno parte della stessa civiltà culturale e politica. In questo senso, gli Stati Uniti non sono affatto meno decadenti dell’Europa e l’argine che Trump sta cercando di frapporre sulla via di questo declino rischia non solo di rivelarsi tragicamente effimero e illusorio, ma anche di trasformare la più importante democrazia del mondo in un paese alleato di fatto delle peggiori dittature criminali del pianeta.
Si tratterebbe, a ben vedere, di un’alleanza che, se confermata nei prossimi mesi, si rivelerebbe il sintomo di una decadenza ben più grave di quella che Trump imputa all’Europa e che potrebbe essere a sua volta spiegata con un altro tipo di decadenza in corso da tempo. Oltre quella di cui parla Trump riferendosi all’Europa, ne esiste infatti una che si manifesta con una tendenza autolesiva che riguarda tutto l’Occidente e non saranno certo delle leggi volte a limitare l’immigrazione o a migliorare la bilancia commerciale a poterla arrestare. I processi autodistruttivi, sia individuali che collettivi, non possono infatti essere fermati agendo semplicemente sugli strumenti mediante cui si realizzano: non è semplicemente limitando la circolazione di pistole, droghe o veleni che si può impedire alle persone di suicidarsi, né riducendo quella delle lamette che le si può indurre a non tagliarsi le vene. Ogni processo autodistruttivo dovrebbe invece essere analizzando in modo approfondito per comprendere cosa lo ha innescato e poter così intervenire sulle cause che lo hanno generato.
Ora, che una simile tendenza autodistruttiva della civiltà occidentale sia in corso da tempo è attestato dall’aumento di un complesso di sintomi che segnalano un disagio psicologico, sociale e culturale abbastanza evidente. Tra questi sintomi, non si possono non menzionare il crescente uso di sostanze stupefacenti e di psicofarmaci antidepressivi, l’incremento del cyber-bullismo e l’aumento dei disturbi alimentari, e tutto ciò mentre, per la prima volta nella storia dell’umanità, si registra una diminuzione del suo quoziente intellettivo medio.
L’incremento di molti di questi fenomeni sociali è probabilmente connesso col fatto che negli ultimi trent’anni i paesi occidentali hanno attraversato trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche di grande portata, come per esempio la diffusione di internet, dei social network, dei videogiochi e dei cellulari, che sono spesso ritenute concause non marginali dell’incremento del disagio psicologico e di condotte problematiche diffuse e preoccupanti, perché denotano l’incrinarsi d’istanze biologiche e sociali d’importanza vitale.
Quando si osservano le principali statistiche prodotte dalle grandi istituzioni internazionali – dall’Organizzazione Mondiale della Sanità alla banca dati Global Burden of Disease, dall’Oecd ai sistemi di monitoraggio sulle adolescenze come l’Hbsc – emerge infatti un quadro piuttosto inquietante. Sebbene solo alcune di queste tendenze siano in aumento, mentre altre tendono a stabilizzarsi e altre ancora cambiano forma senza necessariamente aumentare nella sostanza, le percentuali di alcuni incrementi attestano che il quadro complessivo è in chiaro peggioramento.
Per quanto riguarda l’uso di stupefacenti, la fonte più affidabile e comparabile nel tempo è rappresentata dagli studi del Global Burden of Disease, che misurano il peso complessivo dei disturbi da uso di droghe attraverso gli indicatori Daly, ossia anni di vita persi o vissuti con disabilità dovuti alla dipendenza da sostanze come oppioidi, cocaina, stimolanti o cannabis. Tra il 1990 e il 2021 il burden globale delle dipendenze è aumentato di circa il quindici per cento e il dato rilevante è che questo incremento non si distribuisce in modo uniforme: le regioni con i valori più elevati non sono quelle più povere, ma proprio Nord America, Europa occidentale e Australasia, cioè le aree ad alto reddito che costituiscono il nucleo di ciò che normalmente chiamiamo “Occidente”.
All’interno di questo andamento complessivo, il caso più drammatico è quello nordamericano, dove gli oppioidi sintetici hanno prodotto un’impennata dei decessi e dei disturbi da dipendenza: basti pensare che il fentanyl − un potente oppioide sintetico da 50 a 100 volte più potente della morfina e da 30 a 50 volte più potente dell’eroina, prodotto illegalmente e disponibile sul mercato in diverse forme − negli ultimi tre anni ha provocato negli Stati Uniti oltre 100.000 morti, un numero paragonabile a una vera e propria epidemia.
In Europa la situazione si presenta più articolata e tutto sommato meno drammatica: la prevalenza di consumo di cannabis è rimasta relativamente stabile negli ultimi vent’anni, così come quella di cocaina e amfetamine, anche se non sono mancati picchi locali e periodi di aumento. Se si imposta il livello degli anni Novanta a 100 come indice di riferimento, il peso delle dipendenze oggi nei paesi occidentali si colloca attorno a 117, con un incremento moderato, ma comunque significativo.
Diverso è il discorso relativo all’uso di farmaci antidepressivi, che mostra una tendenza molto più netta e documentata. I dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, raccolti con metodologie omogenee in diciotto paesi europei, indicano che il consumo medio di antidepressivi, misurato in dosi giornaliere definite per 1000 abitanti, è passato da 30,5 nel 2000 a 75,3 nel 2020. È un aumento del 147 per cento in vent’anni, pari a un incremento dell’indice da 100 a circa 247. In alcuni paesi, come Portogallo, Regno Unito o Spagna, la crescita supera il 200 per cento. Non si tratta semplicemente di un peggioramento dello stato mentale collettivo, poiché vi influiscono vari fattori: la maggiore facilità diagnostica, le linee guida che incoraggiano l’uso dei nuovi antidepressivi per disturbi d’ansia e dolore cronico, la riduzione dello stigma e l’ampliamento delle categorie cliniche. Tuttavia, il dato rimane: l’Occidente consuma oggi più del doppio degli antidepressivi che consumava all’inizio del secolo.
Il discorso relativo al bullismo e al cyberbullismo richiede poi un’attenzione particolare alla distinzione tra forme tradizionali e digitali. Per il bullismo scolastico, i dati più solidi provengono dall’indagine internazionale Health Behaviour in School-aged Children, condotta su undicenni, tredicenni e quindicenni in quarantaquattro paesi europei e nordamericani. L’ultima rilevazione 2021–2022 indica che l’11 per cento degli adolescenti dichiara di essere stato vittima di bullismo a scuola negli ultimi mesi, mentre il 6 per cento riferisce di aver bullizzato altri. Quando si comparano questi dati con le serie degli anni Duemila, emerge una tendenza generale alla stabilizzazione o, in vari paesi, a un lieve calo. L’indice passa, infatti, da 100 a un valore intorno agli 80/90, segnalando un contenimento dei comportamenti aggressivi in presenza, probabilmente favorito da interventi educativi e regolamentazioni scolastiche più incisive.
Il quadro cambia radicalmente quando si osservano i fenomeni digitali. Il cyberbullismo, pressoché inesistente prima della diffusione capillare degli smartphone, ha registrato un aumento rapido nel corso dell’ultimo decennio. Fra il 2018 e il 2022 la percentuale di adolescenti che dichiara di essere stata vittima di aggressioni online è passata da circa il 12 per cento a valori compresi tra il 15 e il 16 per cento; gli autori di cyberbullismo sono saliti dall’11 per cento al 14 per cento fra i maschi, e dal 7 al 9 per cento fra le femmine. L’indice, posto pari a 100 alla fine degli anni Dieci, supera oggi i 130-150, segnando una crescita sensibile che segue fedelmente la diffusione degli ambienti digitali come spazi di socialità e di conflitto. Siamo di fronte a un fenomeno nuovo, più rapido del bullismo tradizionale, meno regolamentato e spesso difficilmente intercettabile dagli adulti.
Un discorso altrettanto articolato riguarda i disturbi alimentari. Anche qui gli studi Global Burden of Disease forniscono i dati più completi e comparabili. La prevalenza standardizzata dei disturbi dell’alimentazione è passata da 300,73 casi ogni centomila abitanti nel 1990 a 354,72 nel 2021, con un aumento pari al 18 per cento. Parallelamente, il peso complessivo della malattia, misurato in Daly, è salito da 37,33 a 43,36 per centomila abitanti, segnando una crescita del 16 per cento. L’aspetto più significativo è che i valori più elevati non appartengono ai paesi a basso o medio reddito, bensì alle regioni ad alto indice sociodemografico: Australasia, Nord America, Europa occidentale. L’incidenza mostra il suo picco fra i venti e i ventiquattro anni, con una prevalenza nettamente superiore nelle donne, anche se alcuni studi rilevano un aumento più rapido nei maschi rispetto al passato. L’indice complessivo dei disturbi alimentari passa così da 100 nel 1990 a circa 118 nel 2021, segnalando un incremento lento ma costante, profondamente radicato nelle società avanzate.
La comparazione dei fenomeni rivela un quadro tutt’altro che uniforme. Esiste una crescita moderata e costante nei disturbi alimentari. Esiste un aumento contenuto ma reale nei disturbi da uso di stupefacenti, trainato soprattutto dagli oppioidi in Nord America. Esiste un incremento molto marcato nell’uso di antidepressivi, più che raddoppiato nei paesi occidentali in vent’anni. Esiste un aumento rapido e significativo nel cyberbullismo, che si è imposto come nuova forma di aggressività adolescenziale, mentre il bullismo tradizionale si mostra sostanzialmente stabile.
Non siamo quindi di fronte a un peggioramento uniforme, ma a uno articolato e differenziato. La trasformazione più radicale riguarda la digitalizzazione dei comportamenti problematici e l’ampliamento della sfera di rilevazione statistica. Ciò che vent’anni fa rimaneva sommerso oggi emerge con chiarezza. Ciò che avveniva solo a scuola oggi avviene ventiquattr’ore su ventiquattro negli spazi digitali. Ciò che non aveva una diagnosi oggi rientra in categorie cliniche consolidate. Ciò che prima non veniva trattato oggi incontra una prescrizione medica.
Certo, l’Occidente degli ultimi trent’anni non è soltanto una società più violenta e più fragile sotto il profilo emotivo e psicologico, è anche una società che misura meglio la sofferenza, che intercetta nuove forme di disagio, che rende visibili fenomeni un tempo inaccessibili all’osservazione pubblica e scientifica ma, a quanto pare, queste circostanze non le hanno consentito e tutt’ora non le permettono di arrestare la crescita complessiva di questi fenomeni. Al contrario di quello che pensa il Presidente Trump, questi possono essere interpretati come segnali di una decadenza ben più pericolosa di quella che lui attribuisce all’Europa, in quanto sono segnali di una trasformazione autodistruttiva che sembra al momento difficilmente reversibile e che le società occidentali e democratiche hanno prodotto autonomamente, senza essere state in grado né d’individuarne la genesi né di prendere le contromisure adeguate per arginare e ridimensionare il disagio psicologico, sociale e culturale di cui sono il sintomo.
Siamo qui probabilmente di fronte agli effetti di un sostanziale “nihilismo” sempre più diffuso e pervasivo che sembra caratterizzare le società post-industriali contemporanee, tanto da essere virtualmente in grado di realizzare delle vere e proprie mutazioni antropologiche rispetto alle quali i provvedimenti adottati dall’amministrazione Trump sembrano, oltre che frutto di una profonda ignoranza, tragicamente velleitari. Ma la cosa forse più interessante e paradossale è che il sintomo più evidente di una simile decadenza consiste proprio nel fatto che Donald Trump – ormai alleato di fatto del dittatore criminale del Cremlino, e quindi traditore della democrazia occidentale – possa essere stato eletto al vertice del proprio paese dallo stesso popolo che ha scritto in passato alcune delle più belle pagine della storia della democrazia evitando il trionfo dei suoi nemici più irriducibili e spietati. Tra i numerosi sintomi della decadenza dell’Occidente, forse questo è infatti il più inquietante e pericoloso, una sorta di acme e di sintesi perniciosa delle circostanze e delle trasformazioni che hanno provocato tutti gli altri sopra ricordati.
Aggiornato il 16 dicembre 2025 alle ore 15:03
