Le astensioni nel settore essenziale della mobilità trasformano una vertenza corporativa in un danno collettivo che grava su chi ha meno mezzi e meno voce
Lo sciopero dei trasporti è una forma di violenza sociale che colpisce chi non può difendersi. Non ha nulla di romantico, di rivoluzionario o di progressista: è una pratica che sfrutta la vulnerabilità della popolazione per esercitare pressione politica. La sua efficacia deriva dal fatto che non si limita a interrompere un servizio, quanto a fermare la vita delle persone che dipendono da quel servizio per sopravvivere. È proprio da questa asimmetria che nasce la sua natura regressiva: a differenza di altri scioperi, che colpiscono strutture economiche e poteri organizzati, quello nei trasporti si regge sul trasferimento di costi, ansie e perdite a individui che non dispongono di potere contrattuale né di libertà di scelta. Il calendario delle proteste conferma che questo meccanismo si attiverà nuovamente nelle prossime settimane. Ad esempio, per domani è stato proclamato uno sciopero generale nazionale che interessa trasporti, scuola e altri settori, con possibili ripercussioni su larga scala. Nel comparto ferroviario, lo stop è previsto dalle 00:01 alle 21, con potenziali cancellazioni e disagi in tutta Italia. Le informazioni circolate negli ultimi giorni segnalano inoltre che l’intero periodo sarà segnato da ulteriori agitazioni, rendendo instabile la mobilità nazionale.
Tutto questo viene giustificato come “lotta sociale”, anche se la realtà è molto meno nobile. Quando si blocca un treno, non si manda un segnale a manager o politici: si taglia la giornata a lavoratori pagati a ore, si mette a rischio il salario di chi ha orari rigidi, si complica la vita di chi abita lontano dai centri, non dispone di un mezzo proprio o deve occuparsi di un familiare. In sintesi, si colpisce chi non ha alternative. L’impatto non è simbolico, è esclusivamente economico, psicologico, esistenziale. Un sistema che celebra il diritto di protestare senza interrogarsi sulla libertà di chi subisce la protesta finisce per legittimare l’aggressione verso i più vulnerabili. Nel dibattito pubblico, com’è risaputo, la narrazione politically correct descrive lo sciopero come un presidio a tutela dei più deboli, un gesto che riequilibra rapporti di forza. Nei trasporti, però, questo schema si capovolge: non sono “i deboli” a scioperare contro “i forti”, bensì un gruppo organizzato che esercita potere verso una massa disorganizzata, trasferendo il costo della propria lotta su chi non può reagire. Ed è proprio qui che emerge il paradosso italiano: i soggetti più garantiti del settore pubblico, protetti da contratti, stabilità e rappresentanza, utilizzano il proprio ruolo per generare danno a categorie che non hanno voce né protezione. L’astensione dal lavoro diventa così una redistribuzione coatta della sofferenza, che si regge non sulla solidarietà, ma sul privilegio.
Ciò che non si comprende è che la mobilità non è un servizio qualunque: è la condizione elementare della vita moderna. Senza mobilità non esiste lavoro, istruzione, sanità, cura, partecipazione, autonomia. Bloccarla significa mettere a rischio la dignità e la capacità di autodeterminazione delle persone. Uno Stato che consente la sospensione arbitraria di un servizio pubblico essenziale accetta che la vita quotidiana di milioni di individui sia ostaggio di una trattativa particolare. E lo fa invocando l’idea di “diritti” mentre calpesta il diritto più concreto e fragile: la libertà di muoversi. Non ci vuole coraggio per difendere uno sciopero nei trasporti. Ce ne vuole per riconoscere che, in questo contesto, il “diritto” diventa abuso. Non è un caso che nessuno voglia assumersi la responsabilità di dirlo: la politica si rifugia nella retorica e nei rituali, evitando di affrontare la questione morale. Qualunque intervento che limiti la protesta viene trattato come attacco alla democrazia, non come difesa della società. Ma così facendo, il potere rimane in mano a chi può utilizzarlo contro l’interesse generale.
Se i trasporti pubblici fossero un’impresa privata in monopolio che, senza preavviso, bloccasse l’accesso ai suoi servizi danneggiando milioni di utenti, lo Stato interverrebbe con sanzioni, commissariamenti, interventi d’urgenza. Quando lo fa un sindacato, diventa “parte della dialettica democratica”. Questo doppio standard non è solo incoerente: è pericoloso. Legittima l’idea che alcune categorie possano generare danno agli altri senza pagarne il prezzo. Eppure, il fatto che un danno sia legale non significa che sia giusto. Né che sia moralmente accettabile in quanto è previsto dall’ordinamento. La libertà, se vuole essere qualcosa di più di uno slogan, non può consistere nel potere di impedire ad altri di vivere. Una società decente dovrebbe tutelare chi protesta, senza dimenticare chi non ha la possibilità di farlo. Dovrebbe garantire non solo il diritto a rivendicare, ma anche quello a lavorare, tornare a casa, prendersi cura dei propri affetti.
In conclusione, lo sciopero nei trasporti non è una battaglia per l’uguaglianza. È un privilegio esercitato contro chi non ha potere. È una pratica regressiva che scarica costi su chi non ha voce, senza preoccuparsi delle conseguenze. È una forma di coercizione che usa la vulnerabilità come leva. E finché continueremo a tollerarla, non avremo un Paese più giusto. Ne avremo uno in cui chi ha potere può bloccare la vita degli altri, e chiamarlo paradossalmente libertà.
Aggiornato il 11 dicembre 2025 alle ore 10:22
