Migranti, Piantedosi “sfida” la Chiesa sul piano Albania

Matteo Piantedosi è convinto che il piano Albania rappresenti un modello per l’Europa. Nel corso di un’intervista al Messaggero, il ministro dell’Interno analizza le nuove norme Ue sui migranti. Sui centri in Albania “aspettiamo la definitiva approvazione dei regolamenti europei per avere entro l’estate il centro di nuovo pienamente operativo”. E, dato che gli stessi centri “servono a verificare in tempi brevi chi può entrare in Europa e chi no, contrastarne l’utilizzo è difficilmente comprensibile se non con un pregiudizio puramente ideologico”. Per Piantedosi, in futuro ci sarà “un migliore controllo delle frontiere, una più concreta solidarietà tra i Paesi nel sostenere il peso migratorio, la deterrenza degli hub per i rimpatri in aree extra Ue, criteri per il riconoscimento dell’asilo più aderenti alla nobiltà originaria dell’istituto, rimpatri più veloci in Paesi ritenuti sicuri”. La struttura in Albania, spiega, “è tuttora in funzione ma, per alcuni pronunciamenti giudiziari, è attualmente solo parzialmente utilizzata soltanto come Centro per i migranti da rimpatriare. Adesso confidiamo al più presto di poter utilizzare la restante parte dei centri anche e soprattutto per le innovative procedure accelerate di frontiera, il punto di forza e la vera novità tra le misure di contrasto all’immigrazione irregolare”. Infine, sull’ordine pubblico in Italia, il ministro conferma che il Comune di Torino non reclama la liberazione del centro sociale Askatasuna, dunque che non ci sono i presupposti per sgomberarlo. A preoccupare però, in generale, “la persistente violenza squadrista dei cosiddetti movimenti antagonisti”.

Nonostante Piantedosi professi orgoglio e convinzione, la Chiesa italiana boccia il “modello Albania”. L’esternalizzazione della questione migranti non andrebbe nel senso dell’accoglienza. Lo sottolinea il nuovo Rapporto Migrantes, l’ente della Conferenza episcopale italiana che si occupa dei fenomeni migratori. Ma non è l’unico appunto che arriva dai vescovi: l’Italia risulta anche fanalino di coda in Europa per l’accoglienza dei rifugiati. Il sistema di accoglienza italiano non ne esce bene, tra “lungaggini amministrative”, “vaporizzazione del diritto”, “zone di non essere”, “file della vergogna”. Tutte espressioni forti, quelle usate nel Rapporto Migrantes, per descrivere una situazione che resta di disagio e non di applicazione di diritti anche costituzionalmente garantiti. Il “modello Albania” viene definito “ai margini della democrazia”. Di tutt’altro avviso è la posizione del partito di maggioranza relativa. Secondo la deputata Ylenja Lucaselli, “l’’accordo nel Consiglio Ue Affari Interni sul regolamento riguardante i rimpatri conferma, nella sostanza, che il Governo Meloni aveva fatto da apripista con il Trattato Italia-Albania. Come spiegato anche dal ministro Piantedosi, i centri attivati in quel Paese potranno essere dei return hubs. Fin da quando il nostro Esecutivo aveva messo in campo questa impostazione, a livello europeo era maturata un’attenzione costruttiva su un’idea che avrebbe potuto rappresentare un modello. Solo dalla sinistra italiana erano arrivati i strali ideologici, oggi come sempre smentiti”.

Nello specifico, il regolamento, secondo quanto ha spiegato il Consiglio Ue Affari Interni in una nota, imporrà obblighi rigorosi ai rimpatriati. In primo luogo, quello di rispettare l’obbligo di lasciare il territorio dello Stato membro in questione e di collaborare con le autorità. Altri obblighi includono quello di rimanere a disposizione delle autorità, fornire loro un documento d’identità o di viaggio, fornire i propri dati biometrici e non opporsi fraudolentemente alla procedura di rimpatrio. Vi saranno conseguenze anche quando le persone a cui è stato intimato il rimpatrio non collaboreranno. Gli Stati membri possono decidere di rifiutare o dedurre determinati benefici e indennità, rifiutare o revocare permessi di lavoro o imporre sanzioni penali che, secondo la posizione del Consiglio, dovrebbero includere anche la reclusione. Il regolamento chiarisce che il “Paese di rimpatrio” può essere un Paese con cui esiste un accordo o un’intesa in base alla quale viene accettata una persona che non ha diritto di soggiornare negli Stati membri. Stabilisce inoltre le condizioni per la creazione di tali accordi o intese. Ad esempio, possono essere conclusi solo con un Paese terzo in cui siano rispettati gli standard internazionali in materia di diritti umani e i principi di diritto internazionale, incluso il principio di non respingimento.

Aggiornato il 10 dicembre 2025 alle ore 14:38