Nel Bel Paese se ne sono viste di tutti i colori, peggio che in un quadro di Jackson Pollock. Con stomaco ferreo, abbiamo digerito di tutto, anche i 5Stelle, anche Il Fatto, e anche il “Premio Stalin”, inventato a Mosca nel 1939, in opposizione al Nobel.
Quando l’Italia era attraversata da flussi di denaro da Russia e Stati Uniti, c’era chi si dava da fare per la gloria di quello − tra i politici − che “più ha fatto per l’umanità”. Quando morì si seppe che era l’esatto contrario. In Italia si fece finta di niente, come sempre, quando si hanno da nascondere i vizi politici. in Russia almeno per un po’ Kruscev disse la verità su Stalin, prima di piazzare missili atomici a Cuba, a due passi dalla Florida (sembra quasi di sentire le parole di Putin, in tutto ciò).
Il partito mondiale del proletariato rimase soggiogato dal tiranno persino dopo la sua morte, e anzi ancora oggi qualcuno dice: “Si stava meglio quando c’era Stalin alla guida del comunismo”. Josip era un santo anche in Spagna, dove parte dei volontari legati ai partiti comunisti si preoccuparono in primo luogo di sparare agli anarchici. Che diamine, in amore e guerra non si guarda in faccia a nessuno. Quanto all’amore rilevo qualcosa, nella melassa sulla Giornata delle Donne: mentre le aule della Camera dei deputati e del Senato erano colorate con led arancioni in onore delle donne (e in questo consisterebbe lo sforzo?), alla periferia di Roma una gang di schifosi stava stuprando una ragazza, tenendo bloccato con la forza il ragazzo col quale lei si era appartata in auto. Siamo bravi a parlare. Ma a fare, ce ne passa di acqua sotto i ponti.
Provo a dare un suggerimento al mondo della informazione: quando si danno notizie su femminicidi o stupri, violenze e altre barbarie contro donne, se si aggiungesse almeno un giudizio morale non sarebbe male. Se dai la notizia dello stupro e basta, senza dire – chessò − “Malvagi!”, allora di fatto fai pubblicità a femminicidi e stupri. L’uomo-scimmia imita i peggiori comportamenti, ma i giornalisti questo non lo sanno, perché i corsi di formazione mica si occupano di etica e coscienza.
Torniamo al Premio Stalin. Fu un annuale e nel 1952 fu conferito al capo del Partito socialista italiano Pietro Nenni (guarda un po’!). Nel 1954 andò − meritatamente, al di là della sua affiliazione allo stalinismo − ad Andrea Gaggero, sacerdote e militante comunista che fece parte della Resistenza. Arrestato e torturato non fece nomi e fu inviato a Mauthausen dal lager di transito di Bolzano. Sopravvisse con altri venti tra i quattrocento inviati dal campo dell’Alto Adige. Fu un combattente (nel 1954 ricevette anche una medaglia al valor militare) che fino alla morte militò dal lato di un pacifismo che predicava il disarmo dell’Occidente, ma non quello dell’impero sovietico. Comunque sia, Gaggero merita rispetto.
Nel 1957 il Premio Stalin andò al poeta Danilo Dolci, altra figura di partigiano meritevole di menzione. Ma in quell’anno, ci dice AI overview, il riconoscimento aveva già cambiato nome in Premio Lenin, dopo le rivelazioni di Kruscev sugli scempi e i milioni di morti causati dall’uomo per il quale L’Unità titolò “Gloria Eterna”, manco il direttore Pietro Ingrao fosse un Johann Sebastian Bach, e Stalin fosse Gesù Cristo.
Basta cambiare nome, come Il Gattopardo dell’omonimo romanzo, e tutto diventa come la mitologica Acqua della Dimenticanza del fiume Lete.
Il Premio Stalin, nonostante il suo nome tremendo, portò sugli altari nomi degni di menzione. Tuttavia, quel premio ha ancora molto da dirci, soprattutto a chi vuole ancora studiare i fatti, pur camellando nel deserto della Lontananza dal sapere. Allora non si sapeva quasi nulla su ciò che succedeva al di là della Cortina di Ferro, dove si viveva come in un carcere, perché si era tutti sotto le ali del Grande Fratello Stalin.
Forse soltanto il fisico Bruno Pontecorvo e Achille Togliatti videro il vero volto di Stalin. Ma non dissero nulla. Pontecorvo fuggì in Russia nel 1950 con moglie e figli, illuso di poter passare dai limiti del capitalismo occidentale, alla parusia comunista. Decollò dall’Italia di nascosto, proveniente dal Regno Unito dove stava progettando la bomba atomica inglese, vicino Oxford, dopo aver partecipato in Canada alla costruzione di un reattore nucleare. Vivendo con la paura di essere perseguito come spia sovietica (Pontecorvo era notoriamente comunista, e come tale era stato escluso dal Progetto Manhattan) scelse il regno di Stalin. Probabilmente la fuga fu organizzata dal Kgb russo. La tragedia per i Pontecorvo − dopo l’arrivo a Mosca − fu ritrovarsi costantemente seguiti da agenti di polizia (il controllo nel Comintern era asfissiante per tutti). Non potevano comunicare con nessuno. Bruno Pontecorvo e i suoi familiari persero persino il cognome e furono ribattezzati Maksimovic. Pontecorvo morì a Dubna nel 1993. Le sue ceneri si trovano per metà in Russia e per metà nel cimitero acattolico del Testaccio, a Roma. Sua moglie, Marianne Nordblum, svedese, fu colpita da gravi problemi psichici e passò parte della vita internata nelle cliniche russe e morì in quelle specie di carceri. Le “cure psichiche” erano una soluzione alternativa al gulag per ridurre alla ragione chi non restava buono e zitto, e comunque in quella situazione era facile smarrire la ragione. Tra i figli dei Pontecorvo/Maksimovic, uno è fisico e vive a Dubna, un altro risiede negli Stati Uniti allevando cavalli, dopo essere diventato oceanografo a Mosca.
La vita in Russia negli anni di Lenin e Stalin è stata occultata. Fu una memoria del sottosuolo, velata da una folle fede nel male travestito da Bene. Prima o poi recensirò un libro di Luciano Megacci, Besprizornye (Adelphi, 2019), che invece di essere diffuso dai Ministeri della Pubblica Istruzione (esagero, non troppo) è stato messo sotto naftalina. Il sottotitolo illumina noi, bene informati dalla narrazione sul 1929 negli Stati Uniti: Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935). Si parla di sette (7) milioni di bambini che vagavano nelle lande siberiane, nella steppa o sugli Urali e sull’Artico. È quanto viene descritto nello splendido romanzo di Andrej Platonov Alla ricerca di una Terra felice (Einaudi 1980), altro libro tenuto sotto naftalina, che − oltre a narrare di un popolo che vaga tra il lago di Aral e l’Asia Centrale − sembra anche la biografia di quei non pochi italiani che, come i Pontecorvo, andarono nella Terra Promessa dove trovarono l’Inferno. Imperdibili anche altri romanzi di Platonov, come La Fondazione o Čevengur (e non dimentichiamo il bel film di Peter Weir The Way back, del 2010). Ancora oggi c’è chi ama gli inferi siberiani e russi, invece di dirsi: cosa mai può venire di buono da un ex agente del Kgb a Berlino est?
Il riconoscimento Stalin, più dello Strega o del Bagutta o del Nobel, ci spiega il dramma dei ricercatori di verità che aderivano alla Terza Internazionale: privi di nozioni e dati sul Leviatano al di là della frontiera di Trieste, diventavano involontariamente dei grandi autori di balle. Ché tali, se permettete, sono anche gli scrittori di romanzi. E quello di Stalin è un grande romanzo horror, mentre la narrazione presente ancora oggi sul comunismo e sul Premio a lui dedicato è la solita pochade all’italiana.
Aggiornato il 28 novembre 2025 alle ore 10:36
