Il caso Emiliano e la zona grigia della normativa

Il recente caso di Michele Emiliano, magistrato in aspettativa da oltre vent’anni per ricoprire incarichi politici (sindaco di Bari e presidente della Regione Puglia), che chiede al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) di veder riconosciuta la sua attività politica ai fini della valutazione di professionalità e del conseguente avanzamento di carriera e aumento stipendiale in magistratura, ha riacceso un dibattito tanto spinoso quanto necessario.

La reazione dell’opinione pubblica è stata, come prevedibile, un misto di scandalo e indignazione. Eppure, è proprio su questo isterismo emotivo che dobbiamo fare chiarezza per cogliere la vera posta in gioco.

LA VERITÀ SCOMODA: NORME ESISTENTI E IPOCRISIA PUBBLICA

Il punto fondamentale, che deve disinnescare la polemica sterile e partitica, è che la richiesta di Emiliano si muove, almeno formalmente, all’interno di un quadro normativo. Non si tratta di un “favore” chiesto, ma di una pretesa basata su norme che consentono ai magistrati in aspettativa per incarichi politici di rientrare in ruolo e, implicitamente, di non subire un rallentamento della carriera dovuto al lungo periodo di “assenza” dalle funzioni giurisdizionali.

La carriera dei magistrati ordinari è scandita da valutazioni di professionalità (o “scatti di carriera”) che, in assenza di demerito, scattano a cadenza quadriennale e comportano un significativo aumento di stipendio. Emiliano chiede che il tempo trascorso come politico, anche attraverso la valorizzazione delle iniziative come sindaco e governatore, venga considerato ai fini della settima valutazione (quella massima).

Le disposizioni dedicate al collocamento fuori ruolo dei magistrati (e la progressione economica) sono complesse e si ritrovano in leggi come il R.D. n. 12/1941 e, soprattutto, il Decreto Legislativo n. 160 del 5 aprile 2006 (“Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati”). Queste norme, se interpretate in senso favorevole, permettono al magistrato in aspettativa di mantenere il diritto a progressioni retributive e di carriera.

SCANDALIZZARSI PER LA RICHIESTA IN SÉ È BIGOTTO

È come indignarsi per un cittadino che chiede la pensione dopo aver raggiunto i requisiti. Quello che è davvero scandaloso è il sistema che rende questa richiesta possibile e, a tratti, logica per chi ne beneficia. La polemica, quindi, deve spostarsi dal caso Emiliano (che agisce secondo le regole) alla necessità di rivedere le regole stesse. Nell’attuale clima economico e sociale, dove milioni di italiani vivono una precarietà lavorativa crescente e dove l’idea del “posto fisso a vita” è un miraggio, l’esistenza di norme che garantiscono a una categoria specifica (i magistrati) un “paracadute dorato” dopo aver percorso una carriera politica, appare come un privilegio anacronistico e iniquo.

L’approvazione della richiesta di Emiliano significherebbe non solo un aumento di stipendio retroattivo, ma anche la possibilità di rientrare in magistratura (un’opzione che la legge gli riserva), in una posizione di alta professionalità, dopo aver ricoperto cariche apicali in politica.

Questa situazione cristallizza il problema delle “porte girevoli” tra politica e giustizia. L’idea che si possa “mettere in pausa” la toga per anni, dedicarsi a tempo pieno alla vita di partito (nonostante i divieti e i precedenti disciplinari, come quelli che ha avuto Emiliano per l’iscrizione al Pd), e poi rientrare senza che l’attività politica abbia inciso negativamente sulla carriera, mina la percezione di indipendenza e imparzialità della magistratura.

L’ANALISI OBIETTIVA: SERVONO NUOVE REGOLE

La richiesta di Emiliano non dovrebbe essere motivo di scontro politico, ma l’occasione per una riflessione oggettiva e bipartisan sulla disciplina del collocamento fuori ruolo per incarichi politici. È giunto il momento di imporre una scelta netta a chi decide di passare dalla giustizia alla politica. Chi sceglie una carica elettiva a tempo pieno dovrebbe essere tenuto a dimettersi dalla magistratura, perdendo la possibilità di rientrare in ruolo e di avvalersi della progressione di carriera per anzianità.

Se si mantiene la possibilità di rientro, il CSM deve valutare l’attività politica ai fini della professionalità con un rigore estremo, chiedendosi: in che modo l’esperienza di sindaco e presidente di Regione contribuisce alla capacità di giudizio o di pubblica accusa? L’elenco di opere pubbliche, pur meritevole, non è di per sé prova della professionalità richiesta a un magistrato.

Le leggi attuali, pensate in un’altra epoca storica, trasmettono l’immagine di una casta blindata che può permettersi di sperimentare una carriera politica, anche fallimentare, con la certezza di un alto stipendio al rientro. In un Paese che chiede sacrifici a tutti, non è più accettabile che esista questa differenza di tutela.

Il caso Emiliano non è l’atto di un singolo furbetto, ma il sintomo lampante di una normativa superata e moralmente insostenibile. La reazione giusta non è l’insulto al politico, ma la richiesta di una riforma legislativa profonda che garantisca la separazione dei poteri e l’equità sociale.

Aggiornato il 28 novembre 2025 alle ore 11:37