È evidente che siamo chiamati a votare un referendum sulla giustizia che, colpa i grandi “media istituzionali”, è stato trasformato in un “Si” o un “No” contro il governo Meloni. Una evidente strumentalizzazione del voto, che ha spuntato l’arma popolare referendaria contro lo strapotere giudiziario e di gran parte della classe dirigente, distorcendo il lodo a semplice promozione o bocciatura dell’esecutivo.

Di logica conseguenza sul fronte politico del “Sì” si sono schierati Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Noi Moderati e Libertà e Democrazia. Mentre Azione e Italia Viva possono considerarsi su posizioni intermedie, critici verso governo e riforma, e con un Matteo Renzi astenuto in Aula: di fatto due forze centriste che, nel solco dell’ultima Diccì crepuscolare, lasciano intendere di essere per il “So” ed il “Ni”; messaggio pilatesco ed equivoco che la Dc forte di Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Giulio Andreotti ed Amintore Fanfani non avrebbe mai dato all’elettorato, e per quanto Montanelli intravedesse nel governatore romano della Galilea un “protodemocristiano” (chi ha qualche anno ricorda le giravolte del decano per giustificare il “turiamoci il naso e votiamo Dc”). Ma è passato più di mezzo secolo da quando Enrico Berlinguer definiva quello di Indro Montanelli lo “slogan anticomunista più efficace”. E francamente da quei giorni la politica e la società sono tanto cambiate. Negli anni ’70 funzionava ancora l’ascensore sociale, c’era il lavoro, la partecipazione politica, soprattutto la maggior parte dei magistrati non si sentivano investiti d’essere una sorta di casta laico-sacerdotale prossima al Faraone: non fraintendetemi, il presidente della Repubblica, per quanto a capo dell’organo di autogoverno, il Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), non va considerato un sovrano assoluto dell’antico Egitto (anche se il suo conterraneo Sciascia intravvedeva poteri egizi in ogni potere consolidato). Diverso il piglio autoreferenziale con cui hanno preso il referendum vari giornalisti delle grandi testate, dirigenti e funzionari di Stato ed enti locali, molti magistrati e tanti detentori di posizioni consolidate e rendite di posizione: ovvero come un “Si” o un “No” alla bocciatura dei privilegi. Perché in Italia chiunque detiene un potere non gradisce venga messo in discussione, si sente un “avente diritto” titolato a contrapporsi a milioni di italiani che hanno perso o non hanno mai goduto di diritti sul lavoro, nei tribunali, negli uffici pubblici, nel sudditante rapporto con le istituzioni. Così gli “aventi diritto” è scontato voteranno “No” mentre gli altri si presume “Si”. Ecco che Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra hanno deciso di schierarsi con il potere consolidato, con gli aventi diritti e privilegi, quindi di appoggiare il “No”.

Ecco perché chi scrive ha deciso di entrare nel primo “Comitato Si Referendum Giustizia”, a fianco di Paolo Capone (Segretario generale Ugl), Lorenzo Cesa (presidente UdC), Fabio Federico (Partito Radicale), Simonetta Matone (Lega), Michele Nardi (già magistrato), Marco Perissa (FdI), Giovanni Quarzo (FdI), Marco Rizzo (DSP), Giorgio Simeoni (FI), Giuseppe Valentino (Fond. AN), Luigi Vitali (LeD). “Lunedì 1 dicembre spiegheremo alla gente perché votiamo Si presso la sala convegni romana il Montarozzo, che si trova all’inizio di via Appia Antica”: ha anticipato Domenico Gramazio (direttore di Realtà Nuova) che modererà l’incontro insieme a Claudio Velardi (direttore de Il Riformista).

Chi vi scrive ha fatto questa scelta interpretando le volontà del compianto amico Arturo Diaconale, che per primo si era speso giornalisticamente nel 1994 per una importante riforma della giustizia, riuscendo anche a motivare in tale senso gli intenti del primo governo Berlusconi: Arturo intraprendeva più di trent’anni fa una battaglia culturale contro la casta “mediatico-giudiziaria”, appoggiato politicamente da Alfredo Biondi, Giuseppe Tatarella, Marco Pannella, Raffaele Costa, Marcello Pera. Una battaglia tesa prima di tutto a scardinare il connubio tra i “processi mediatico-giudiziario” e la politica di alcune procure. Ho aderito al “Comitato organizzatore” di “perché votiamo Si” (il primo registrato con atto notorio) perché altrettanto avrebbe fatto Arturo Diaconale, che mi ha difeso ogni volta che mi volevano cacciare dall’Ordine dei Giornalisti semplicemente per aver attaccato membri delle varie caste di potere: e questo la dice lunga sulla libertà di stampa in Italia. Con me nel Comitato ci sono una dozzina di amici della politica, delle professioni e della società civile: Filippo Carusi, Cristina Chiarelli, Antonio D’Amico, Pietro Giubilo, Domenico Gramazio, Luigi Mancini, Romolo Reboa, Carlo Scala, Maria Beatrice Scibetta, Claudio Togna, Roberta Verginelli, Claudio Verna.

Di fatto quella del “Si” è una battaglia che va ben oltre la promozione o la bocciatura di un governo e di una parte politica, va anche ben oltre la presunta contrapposizione tra politica e magistratura. È una battaglia di libertà, tesa a far rientrare nella normalità la vita italiana. Perché chiunque oggi percepisce molti magistrati come una sorta di “casta sacerdotale laica”, paragonabile per molti versi a strutture storicamente presenti in diverse culture e religioni: come i Brahmini nell’induismo ma con molto più potere d’incidere sulla vita quotidiana di un popolo. Va detto che il mondo moderno occidentale ha da più di duecento anni arginato che specifiche gerarchie sacerdotali (laiche) ereditarie potessero ulteriormente incidere sul destino degli uomini. Ma dopo la riforma della giustizia entrata in vigore nel 1989, uno specifico gruppo sociopolitico ha iniziato a detenere potere e privilegi speciali: certi magistrati sono assurti a sacerdoti laici, membri di una casta sociale e di uno status privilegiato. 

Di questo sono coscienti molti avvocati oggi al bivio se appoggiare palesemente il “Si” o il “No”, temendo ripercussioni sulla propria vita professionale. Infatti, durante un incontro in un bar con due membri di uno studio legale nel cuore del quartiere Prati, a pochi passi dalla Procura, uno dei due avvocati mi ha detto “parliamo piano, non facciamoci sentire con questo argomento, potrebbe ascoltarci qualcuno”: mentre profferiva queste parole si voltava per sincerarsi nessuno lo stesse osservando.

Quindi un “Si” potrebbe fugare molte paure, un “No” permetterebbe alla magistratura (e su mandato dell’Unione Europea) di commissariare totalmente la vita politica, lavorativa e sociale italiana. E non voglio espormi con ulteriori chiacchiere da bar, come quella che sarebbero già pronti gli avvisi di garanzia indirizzati ai responsabili della cantierizzazione del Ponte sullo Stretto: certamente una leggenda metropolitana nata dopo l’ulteriore bocciatura del progetto da parte della Corte dei conti. Intanto la favola di certi avvisi, che potrebbero anche essere spediti a pochi giorni dalle urne referendarie, gira come il venticello nel Barbiere di Siviglia. C’è chi ci crede, chi fa spallucce. Qualcosa c’è e si muove, e si spera il “Si” fughi paure e tristezza.

Aggiornato il 24 novembre 2025 alle ore 12:08