Le inchieste condotte da Report sull’Autorità Garante dei dati personali hanno avuto l’effetto sperato di spostare l’attenzione dalle violazioni commesse da Report, e sanzionate dal Garante, a quelle presunte commesse da quest’ultimo, e ad ingenerare la convinzione che, se un’autorità sbaglia in un caso, c’è da attendersi che sbagli in un altro.
Questo atteggiamento, che è ovviamente strumentale, manifesta un problema ben più grave.
L’Autorità garante dei dati personali ha inflitto alla Rai una sanzione, dopo che Report aveva reso di pubblico dominio le conversazioni private tra l’ex ministro Sangiuliano e la moglie.
La decisione del garante può essere letta e compresa da chiunque: è pubblicata sul sito di quella Autority. E, tuttavia, dubito che chi si affanna oggi a biasimare la condotta dei commissari, l’abbia veramente letta. E dubito che sia interessato a farlo, come fosse questione irrilevante.
Eppure, se lo facesse, dovrebbe dare atto che è una decisione motivata con appropriati argomenti e, per quanto mi riguarda, anche fondata: non era essenziale alla informazione coinvolgere non solo e non tanto la vita privata del soggetto pubblico, l’ex ministro, ma soprattutto quella della moglie, che era del tutto estranea alle vicende del marito: dunque una sanzione basata su una corretta interpretazione della legge.
E del resto, non mi pare che tra coloro che oggi chiedono addirittura le dimissioni dei membri della Autorità ve ne siano di quelli che hanno smentito, con argomenti, le ragioni di quella sanzione.
Sarebbe normale che, subìta una sanzione, la si contesti nel merito e la si dimostri errata.
Invece, la reazione di Report è stata diversa: fare le pulci alla vita privata dei commissari, e cercare prove della loro parzialità in altri casi già decisi.
È come se l’imputato condannato da una corte, o la parte che si vede dare torto, anziché smontare il ragionamento dei giudici, si mettesse alla ricerca di loro vizi privati, o portasse ad esempio altri casi in cui quei giudici avrebbero peccato di disonestà intellettuale.
Ognuno vede come, in tal modo, si invertano i ruoli e si faccia strumento di propaganda delle procedure che regolano l’accertamento dei fatti.
Che direste se, anziché contestare una multa, si mettesse alla berlina il vigile per le sue abitudini private o si facesse sospetto di precedenti verbali per screditarlo? Sarebbe doveroso obiettare che anziché difendersi, il multato, come è suo diritto, tenta le vie traverse e neanche quelle più oneste.
Ma supponiamo anche che si rimanga nei limiti del moralmente e del deontologicamente lecito nel fare berlina dei propri accusatori anziché dimostrare che essi hanno torto, sarebbe comunque questa una prova delle proprie ragioni?
Se anche si dimostrasse che i commissari dell’Autority hanno vizi privati, o in altri casi, come quello sbandierato da Report, hanno deciso in modo discutibile, sarebbe questa la prova che lo hanno fatto anche nei riguardi di Report? E perché?
Mi pare evidente che si tratta di semplici illazioni, il cui vero scopo è di screditare la sanzione screditando chi l’ha emessa.
Ora, questo modo di fare non soltanto alimenta visioni dei fatti in cui si prescinde dalla oggettività, ma soprattutto, sostituisce ai tramandati criteri di ragionamento e di inferenza, procedure di dibattito pubblico basate sulle allusioni, sulla inversione del metodo di critica pubblica: scredita gli atti screditando i soggetti.
Eppure, era evangelico il motto “fate quel che dicono, non fate quel che fanno”.
Aggiornato il 18 novembre 2025 alle ore 10:31
