Dopo il Congresso di Bari del Cln, che Radio Londra aveva definito “il più importante avvenimento della politica nazionale dopo la caduta di Benito Mussolini”, il 19 febbraio 1944 Enrico De Nicola ebbe un colloquio con il Re a Ravello, nel corso del quale gli prospettò la nomina del Principe di Piemonte a luogotenente generale del Regno, per superare le resistenze del suo interlocutore, restio a uscire di scena, e per consentirgli, al contempo, di non doversi vedere costretto a una vera e propria abdicazione. Ciò permise, nel rispetto formale dello Statuto, di traghettare, in modo tendenzialmente indolore, l’Italia post-fascista alla democrazia, prima ancora che il popolo fosse chiamato a pronunziarsi sulla futura forma di Governo, attraverso il Referendum istituzionale. Tramite la Luogotenenza era stata salvaguardata la dignità formale del Re, nei confronti del quale De Nicola aveva configurato una “responsabilità oggettiva”, nel momento in cui dovette chiedergli sostanzialmente di farsi da parte, proprio attraverso l’espediente tecnico-giuridico in parola. Il 6 aprile successivo, la Giunta esecutiva del Cln approvò la soluzione riferita, senza peraltro attendere la liberazione di Roma evocata dal Re nella sua pubblica dichiarazione di fare un passo indietro: “Ho deciso – affermò – di ritirarmi dagli affari pubblici e di nominare mio figlio il Principe di Piemonte, luogotenente generale del Regno. Questa nomina avrà effetto con il trasferimento formale del potere il giorno in cui le truppe alleate entreranno a Roma. Questa decisione che io credo fermamente possa servire all’unità nazionale, è definitiva ed irrevocabile”.
Un’annotazione al riguardo del generale Paolo Puntoni, è significativa delle residue esitazioni del sovrano: “Da stamattina – scrisse – Radio Londra, con un’insistenza insolita, diffonde per il mondo la notizia che il principe Umberto si è dichiarato pronto ad assumere la Luogotenenza. Radio Londra dice che questo è il primo passo per arrivare all’allontanamento definitivo di Vittorio Emanuele III dagli affari dello Stato. L’annuncio inglese ha messo il campo a rumore. Pietro d’Acquarone è furibondo; siamo in pieno dramma. Il ministro della Real Casa è convinto che questa manovra sia opera di Riario Sforza. Sua Maestà ha chiamato d’urgenza il Principe di Piemonte, che si trova a Napoli, per sentire se sia stato lui a far trapelare involontariamente qualcosa. Il Re ha deciso di fare subito pubblicare una smentita”. Il 21 aprile vide la luce un Esecutivo di unità nazionale a guida di Pietro Badoglio, il cui spirito fu così evidenziato da Benedetto Croce: “Il programma del presente Governo – scrisse – è nella ragioni stesse della sua origine e della sua composizione. Formato dai rappresentanti dei partiti antifascisti, non è già il Governo di questi partiti in civile gara tra loro, ma un’unione di essi per il bene e l’onore della Patria, al fine di portare con tutte le loro forze alla migliore soluzione, i problemi vitali e urgenti dell’ora”. Spirito, questo, che dovrebbe valere in ogni tempo per quanti hanno a cuore la Salus rei publicae nei momenti di crisi, al di sopra delle rispettive appartenenze. A Ravello, tra le 15.20 e le 15.45 del 24 aprile, i ministri giurarono “sul proprio onore”, anziché per fedeltà al Re ed ai suoi successori, ancorandosi in tal modo ad un solido principio etico – o di diritto naturale che dir si voglia – nelle nebbie di un diritto positivo al momento tutt’altro che certo.
Verso la fine di aprile, il Principe di Piemonte, mal consigliato da dignitari della Corte ereditata dal padre, rilasciò un’incauta intervista al New York Times – non concordata con il Governo ed al di fuori delle prerogative costituzionali della Corona – nel corso della quale affermò che tutto il Popolo italiano era stato in sintonia con la dichiarazione di guerra a suo tempo rivolta contro la Francia e l’Inghilterra. Croce ne confutò la veridicità, riportando conseguentemente all’inizio una non favorevole impressione su Umberto, sulla quale ebbe peraltro successivamente a ricredersi, in questi termini: “Mi parrebbe commettere un mancamento verso la verità se qui non aggiungessi che la sfiducia in me nata per quella intervista del New York Times mi durò per più mesi; ma che poi, avendo avuto occasione di rivedere più volte il Principe Luogotenente per consultazioni politiche del 1945 e nei primi del ‘46, notai la sempre progredente sua formazione politica, l’ascoltare attento, il domandare serio, la correttezza costituzionale, il sentimento di responsabilità personale, che in lui erano a lungo mancati per l’estraneità nella quale era stato tenuto fin allora dalle cose del popolo di cui era chiamato ad essere Re”.
Il giorno dopo la liberazione di Roma, con Regio Decreto 5 giugno 1944, numero 140, il Principe di Piemonte venne nominato Luogotenente generale del Regno, con potere di provvedere in nome del Sovrano a tutti gli affari dell’amministrazione e di esercitare tutte le prerogative regie, firmando i Decreti Reali. La formula in parola, nell’esperienza statutaria era stata utilizzata per 3 diverse fattispecie: 1) presenza del Re al fronte durante una guerra; 2) sua assenza dal Regno per visite di Stato all’estero; 3) gravi infermità del Sovrano. Le Luogotenenze in esame, avevano le caratteristiche della provvisorietà, della revocabilità e della parzialità delle funzioni delegate, le quali caratteristiche non potevano certo rinvenirsi nel caso in esame. Infatti il Regio Decreto numero 140, frutto di un accordo tra la Monarchia, il Comitato di Liberazione nazionale e le forze occupanti (cosiddetto Patto di Salerno), comportò una “irrevocabile rinunzia all’esercizio dei poteri regi”, con il conseguente passaggio degli stessi nelle mani del designato, Luogotenente non già del Re, bensì del Regno, come ribadito nel Decreto Legge Luogotenenziale 25 giugno 1944, numero 151(cosiddetta Costituzione provvisoria), statuente che alla fine della guerra si dovesse eleggere un’Assemblea Costituente a suffragio universale diretto e segreto, per scegliere la nuova forma di Stato e preparare la nuova Carta costituzionale. Inoltre, in attesa di un’Assemblea elettiva che rappresentasse il Paese, i provvedimenti aventi forza di legge sarebbero stati deliberati dal Consiglio dei ministri, nella forma di Decreti legislativi, con promulgazione del Luogotenente generale del Regno. Degno di nota è l’articolo 3 in particolare, che testualmente sanciva: “I ministri e sottosegretari giurano sul loro onore di esercitare la loro funzione nell’interesse supremo della nazione e di non compiere, fino alla convocazione dell’Assemblea Costituente, atti che comunque pregiudichino la soluzione della questione istituzionale”.
Il principio metagiuridico dell’onore rafforzava la cogenza del dettato normativo. Inoltre, in attesa di un nuovo Parlamento, mediante il Decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, numero 146, venne istituita la Consulta nazionale che, quantunque non elettiva, affiancava il Governo esprimendo pareri su questioni normative di particolare rilevanza. Essa predispose, tra l’altro, la legge elettorale per l’Assemblea Costituente. In merito alla cosiddetta Costituzione provvisoria testé citata, va osservato che essa, al pari di quella definitiva, fu il risultato di una conventio tra le parti in causa, con l’intendimento di trovare valori comuni a forze ideologicamente eterogenee, per garantire alla ‘nave Italia’ una rotta sicura tra i marosi di contrapposizioni altrimenti in grado di affondarla, con l’epilogo probabile di una nuova guerra civile, anche dopo la sconfitta del fascismo. Il 1 novembre 1944 il New York Times pubblicò un’intervista di Umberto, nella quale espresse la sua gratitudine per gli aiuti americani all’Italia e distinse tra i partiti politici, di cui era noto il pensiero sulla questione istituzionale, ed il Popolo, i cui sentimenti erano ancora ignoti. Pertanto – proseguiva il Principe – i monarchici preferivano il Plebiscito alla Costituente. Lo Statuto Albertino sarebbe dovuto restare alla base della nuova Costituzione, ma avrebbe dovuto essere revisionato nel senso di una più diretta espressione del volere popolare: “La Monarchia – affermò testualmente – al pari di tutte le istituzioni politiche della Europa postbellica, si muoverà verso sinistra”. Il Luogotenente proseguì affermando che, al di là del passato, che costituiva un peso morto, per la Monarchia si sarebbe potuto aprire un avvenire democratico, ma che egli non desiderava che tale tendenza si materializzasse in un questo o quel Partito in particolare. Ad un amico piemontese che rivedeva dopo tanto tempo, confidò: “C’è tanta gente che viene qui a dirmi, per farmi coraggio, che gli Inglesi sono pronti anche ad impegnar e la forza per sostenere la Monarchia: credono di farmi piacere. Non capiscono quanta amarezza mi danno. Non sanno che non resisterei un minuto di più, se dovessi convincermi che la mia presenza è destinata a provocare un intervento armato dello straniero, e a far spargere pur una sola goccia di sangue del mio popolo”. L’8 agosto 1945 con promemoria riservatissimo della Regia Questura di Roma, si avvertì il ministro dell’Interno che si andava delineando in seno alla Dc una prevalenza di orientamento in senso repubblicano, per “la preoccupazione sorta nei maggiori esponenti del partito, che un maggior ritardo nel pronunziarsi in merito alla questione istituzionale, avrebbe fatto deviare le masse, specie quelle del Nord, verso gli altri partiti a decisa tendenza repubblicana, e quindi compromettere i risultati delle future elezioni”.
Il 28 gennaio 1946 Umberto di Savoia rilasciò una nuova intervista al New York Times, durante la quale affermò che il Referendum era la forma più appropriata per la scelta tra Monarchia e Repubblica. Tuttavia tale consultazione avrebbe dovuto essere preceduta da un accordo tra i vari Partiti per risolvere due questioni della massima importanza: il ritorno in patria di circa 500mila prigionieri di guerra e la firma di un Trattato di pace che stabilisse una volta per tutte quali sarebbero state le definitive frontiere italiane. Se al Referendum avesse prevalso la Monarchia, il Principe si impegnava a restare al di sopra delle fazioni e senza alcuna interferenza sulle possibili combinazioni politiche, fossero socialiste, comuniste, liberali o conservatrici. Del pari avrebbe accettato e rispettato un voto a favore della Repubblica. Con Decreto legislativo luogotenenziale del 10 marzo 1946, numero 74, contenente le “Norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea Costituente”, fu sancita la modalità della rappresentanza proporzionale, con suffragio universale per tutti i cittadini che avevano raggiunto la maggiore età entro il 31 dicembre 1945. I Governi alleati erano sensibili non solo al ripristino della democrazia in Italia, ma anche al futuro assetto istituzionale del Paese, la qual preoccupazione era condivisa dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, sicché tra la fine del 1945 e gli inizi dell’anno successivo, era stata ravvisata l’opportunità di modificare il Decreto numero 151 del 1944. Pertanto, il 16 marzo 1946 il Luogotenente sanzionò con la sua firma il Decreto legislativo numero 98 (cosiddetta seconda Costituzione provvisoria), che contemporaneamente alle elezioni per l’Assemblea Costituente, della quale venivano fissati i poteri, stabilì che il popolo sarebbe stato chiamato direttamente a votare per la Monarchia o la Repubblica, mercé un Referendum istituzionale. All’articolo 2 in particolare venne sancito che, qualora la maggioranza degli elettori votanti si fosse pronunziata in favore della Repubblica, l’Assemblea Costituente come suo primo atto avrebbe eletto il capo provvisorio dello Stato. Nelle more, le relative funzioni sarebbero state esercitate dal presidente del Consiglio in carica nel giorno delle elezioni. Se, viceversa, avesse vinto la Monarchia, sarebbe continuato il regime della Luogotenenza, fino all’entrata in vigore delle deliberazioni dell’Assemblea sulla nuova Costituzione e sul capo dello Stato. L’articolo 7 testualmente impegnava i dipendenti civili e militari, sul loro onore, “a rispettare e far rispettare, nell’adempimento dei doveri del loro stato, il risultato del Referendum istituzionale e le relative decisioni dell’Assemblea Costituente. Nessuno degli impegni da essi precedentemente assunti, anche con giuramento, limita la libertà di opinione e di voto dei dipendenti civili e militari dello Stato”.
È significativo che in un testo normativo di siffatta portata, frutto di delicatissimi equilibri e di una tecnica espositiva quanto mai chiara, dovesse nuovamente farsi ricorso all’evocazione del già ricordato principio dell’onore, riconducibile al diritto naturale, atto a colmare vuoti normativi o interpretativi, anche nei momenti di transizione, come quello di cui si discorre. Altresì degna di nota è la circostanza che in caso di un esito referendario favorevole alla Monarchia, la designazione del nuovo Re sarebbe avvenuta ex novo in base alle deliberazioni dell’Assemblea Costituente, il che avrebbe significato un’inedita legittimazione della Monarchia, al di fuori di procedure dinastiche. Il Decreto legge in esame costituì per una parte della dottrina l’ultima modifica apportata allo Statuto, anche se un’altra parte affermò che lo Statuto medesimo sarebbe in realtà venuto a cessare già al momento in cui era entrata in vigore la prima Costituzione provvisoria. Sembra più plausibile quest’ultima teoria, dato che nel regime delle due successive Costituzioni transitorie, esse non risultavano più frutto di una concessione unilaterale del sovrano (Statuto albertino), bensì di un atto a complessità ineguale a firma del Luogotenente, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con tutti i ministri, dato che la volontà sostanziale dell’Esecutivo era prevalente su quella del capo dello Stato. Nell’accompagnare il Decreto, Umberto scrisse una lettera al presidente del Consiglio, affermando che, in virtù dell’atto firmato, sentiva di ricongiungersi alle gloriose tradizioni del Risorgimento nazionale “quando – scrisse – attraverso eventi memorabili indissolubilmente legati alla storia d’Italia, la Monarchia poté suggellare l’unità della Patria e i Plebisciti furono l’espressione della volontà popolare ed il fondamento del nuovo Stato unitario. La sanzione di oggi, è dunque il coronamento di una tradizione che sta a base del patto fra Popolo e Monarchia, patto che, se confermato, dovrà costituire il fondamento di una Monarchia rinnovata, la quale attui pienamente l’autogoverno popolare e la giustizia sociale”. Rivolse quindi un commosso pensiero agli italiani ancora prigionieri o internati ed ai cittadini di ogni terra italiana, cui non era dato per ragioni contingenti, di partecipare alle consultazioni che avrebbero dovuto decidere anche del loro avvenire. Confidò altresì che il Governo sarebbe stato in grado di assicurare il miglior svolgimento di libere elezioni, concludendo: “Io, profondamente unito alle vicende del Paese, rispetterò come ogni italiano, le libere determinazioni del Popolo, che, ne sono certo, saranno ispirate al migliore avvenire della Patria”. Tra il 10 marzo ed il 17 aprile 1946 si svolsero le elezioni amministrative, che furono una sorta di prova generale per la campagna elettorale referendaria e per la Costituente. Ad esse parteciparono per la prima volta le donne, ed il tutto si svolse con grande civiltà, nel mentre già si stavano delineando prevalenze di voti per i Partiti di orientamento repubblicano nel Nord Italia.
Il 9 maggio il Re si risolse all’abdicazione in favore di Umberto, che il giorno seguente assunse il nome di Umberto II ed inviò una missiva al presidente del Consiglio, in cui riaffermò la sua volontà di osservare gli impegni assunti. Rivolgendosi direttamente agli italiani, dopo aver indirizzato un commosso pensiero ai Caduti, ai prigionieri ed agli italiani della Venezia Giulia e delle Terre d’Oltremare, i quali desideravano restare cittadini della Patria comune, così affermò: “La volontà del popolo espressa nei comizi elettorali determinerà la forma e la nuova struttura dello Stato, non solo per garantire la libertà del cittadino e l’alternarsi delle parti al potere, ma per porre altresì la Costituzione al riparo da ogni pericolo e da ogni violenza. Nella rinnovata Monarchia costituzionale, gli atti fondamentali della vita nazionale saranno subordinati alla volontà del Parlamento, dal quale verranno anche le iniziative e le decisioni per attuare quei propositi di giustizia sociale che, nella ricostruzione della Patria, unanimi perseguiamo”. In tal modo la centralità del Parlamento sarebbe stata riconosciuta non in via consuetudinaria, come nell’Italia liberale prefascista, ma attraverso una formale previsione normativa, che avrebbe costituito il carattere identitario della nuova Italia, a prescindere dalla forma di governo, monarchica o repubblicana, che fosse emersa dal responso delle urne. Il grande stile e garbo del nuovo sovrano non lasciarono indifferenti gli interlocutori: Sforza affermò pubblicamente che era migliore del padre; Ferruccio Parri ne elogiò l’imparzialità, dandogli atto di non aver insistito sul Governo per l’accoglimento della sua richiesta di inserirvi anche dei monarchici. Il nuovo Re intraprese una serie di visite a delle città italiane, venendo accolto calorosamente al Sud, e con freddezza o addirittura ostilità al Nord. Al fine di secondare la pacificazione nazionale, egli avrebbe voluto concedere un’amnistia politica, militare e amministrativa, che comprendesse anche i reati degli ex partigiani e degli ex militanti fascisti; ma il Governo, per il tramite del guardasigilli Palmiro Togliatti, gli presentò un Decreto assai più limitativo rispetto alla formula da lui originariamente proposta, per cui, volendo evitare una crisi dell’Esecutivo, ne accantonò la firma, in attesa degli esiti referendari. Il 23 maggio De Gasperi, innanzi al timore espresso da Riccardo Lombardi circa un eventuale conflitto tra Governo e Corona per un colpo di stato della Monarchia, replicò che vi era una legge e la parola d’onore del luogotenente, poi Re, che ritenne sarebbe stata mantenuta, anche per la preoccupazione che il Sovrano nutriva per l’Italia. La presenza inoltre degli alleati, era un’ulteriore garanzia per entrambe le parti. Ancora una volta era evocato, non casualmente, il principio dell’onore, parlandosi di Re Umberto.
Quest’ultimo aveva confidato al giornalista Luigi Barzini junior: “La Repubblica si può reggere col 51 per cento, la Monarchia no. La Monarchia non è mai un partito. È un istituto mistico, irrazionale, capace di suscitare negli uomini, sudditi e principi, incredibili volontà di sacrificio. Non deve essere costretta a difendersi giorno per giorno dalle insidie e dalle accuse. Deve essere un simbolo caro o non è nulla”. A Genova il 31 maggio il Re emanò un proclama, quant’altri mai significativo, nel quale avvertì gli italiani che alla vigilia del Referendum erano “costretti ad assumere”, per sé e per i propri figli, “la responsabilità di una scelta così grave”. Si impegnò, al contempo, ad indire un altro Referendum, qualora la Monarchia fosse risultata vincitrice solo di stretta misura, allorché le passioni si fossero placate ed a tutti i cittadini – compresi quelli che al momento ne erano esclusi, come i prigionieri di guerra o gli italiani d’Oltremare – fosse stata data la possibilità di partecipare alla consultazione: “Nella serena coscienza di aver presente solo il bene del Paese – concluse – esprimo oggi dal più profondo dell’animo l’augurio che questo mio nuovo atto giovi pur esso alla pacificazione generale, e contribuisca alla rinascita della nostra Italia in un’atmosfera di interna concordia e di feconda collaborazione”.
Anche in questa circostanza, il Sovrano andò oltre il mero dettato della legge scritta e dei correlati adempimenti, mirando a fondare su di una volontà popolare quanto più possibile serena e libera da passioni contingenti, la riedificazione della Monarchia sulla base di un ampio e condiviso consenso, che ne avrebbe reso assai più stabili le fondamenta. Il 2 giugno la Regina uscì dal seggio elettorale e confidò a Manlio Lupinacci di aver votato alla Costituente per Giuseppe Saragat, avendo restituito la scheda per la seconda consultazione, in quanto non aveva ritenuto opportuno votare anche per il Referendum. Il 5 giugno il Re ricevette, sereno nell’aspetto, De Gasperi, il quale gli preannunziò, che si profilava la maggioranza dei voti in favore della Repubblica, così contestualmente commentando: “Non Le nascondo che il primo dolorosamente sorpreso sono stato io stesso”. Al presidente del Consiglio il Re preannunziò che, dopo la proclamazione ufficiale dell’esito della consultazione da parte della Suprema Corte di Cassazione, avrebbe lasciato il Paese: “E bene – soggiunse – che non si avverta scossa alcuna nel momento delicato del trapasso”. A tal fine avrebbe pronunziato un proclama per pacificare gli animi: “Intendo – proseguì – con esso sciogliere dal giuramento alla Corona tutti coloro che lo hanno prestato. Quanti hanno creduto fino ad ora alla Monarchia, devono essere i primi a dare esempio di concordia e di buona volontà. Intanto, come segno del mio proposito, oggi stesso i componenti della famiglia lasceranno il Paese. La Regina e i Principi si recheranno a Napoli, di dove prenderanno imbarco per il Portogallo”.
Dei risultati ufficiosi il ministro dell’Interno Giuseppe Romita dette un comunicato alla stampa, cui seguirono dei tafferugli con vittime a Napoli, tradizionale roccaforte monarchica. Il 7 giugno, proprio mentre Umberto si recava dal Santo Padre in visita di congedo, i fautori della Monarchia impugnarono il computo dei risultati del Referendum (cosiddetto “Ricorso Selvaggi”, sottoscritto anche da Giovanni Cassandro, Guido Astuti, Manlio Lupinacci e Giovanni Mantica). La proclamazione ufficiale dell’esito della consultazione avvenne il 10 giugno per bocca del presidente della Cassazione, Pagano: 12.672.767 voti alla Repubblica e 10.688.905 alla Monarchia. Il tutto, peraltro, ancora con carattere di provvisorietà, in attesa della valutazione del citato ricorso, con cui si contestava il conteggio dei voti, da realizzarsi sul numero degli aventi diritto al voto – e quindi comprendendovi le schede nulle, bianche e gli astenuti – e non su quello dei voti validamente espressi. Si verificò a quel punto un’ulteriore contrapposizione tra le forze in campo circa l’esatta interpretazione della citata norma, statuente che, nel caso di vittoria repubblicana, il presidente del Consiglio dovesse assumere i poteri di capo provvisorio della Stato. Il Re dichiarò di essere disposto ad allontanarsi, ma che – essendo la decisione della Cassazione provvisoria – avrebbe “delegato” al presidente del Consiglio i poteri fino alla decisione definitiva. Con il che avrebbe tenuto conto sia dello spirito della legge che delle esigenze della democrazia, garantendo al contempo l’obbedienza delle Forze militari al capo provvisorio dello Stato. De Gasperi obiettò, tuttavia, che non poteva prescindere dal risultato del Referendum e da una verifica da parte della Cassazione.
La differenza negli effetti delle due posizioni non era sostanziale, dato che nel caso che fosse stata accettata la tesi del Re, la fonte giuridica dei poteri del capo dello Stato provvisorio sarebbe stata l’investitura sovrana; nel caso invece della legittimazione derivante dal Referendum, la fonte dei richiamati poteri sarebbe stata la volontà del Popolo, titolare ultimo della sovranità delegata. La correlata, pericolosissima situazione di muro contro muro, avrebbe potuto epilogare in scontri sanguinosi tra gli opposti schieramenti, poiché Umberto in un primo momento avrebbe voluto attendere l’esito della vertenza giudiziaria, mentre De Gasperi aveva chiesto l’immediato passaggio dei poteri nelle proprie mani. Intanto truppe, carrarmati ed autoblindo e filo spinato circondavano il Quirinale ed il Viminale, rispettivamente simboli – al momento – dell’inquietante condominio tra Monarchia e Repubblica. L’11 giugno De Gasperi riferì al Consiglio dei ministri di aver avuto un nuovo colloquio col Re, ricevendone l’assicurazione che avrebbe agito nel pieno rispetto della legalità, con senso di pacificazione e che il Governo non avrebbe dovuto temere delle sorprese. Alle angosce del presidente del Consiglio per la situazione internazionale, il Sovrano aveva replicato dando ampia assicurazione sul fatto che non sarebbe accaduto nulla di compromettente. Nella notte tra l’11 ed il 12 giugno, secondo un ricordo del marchese Solaro del Borgo, dopo aver accompagnato il Re all’ udienza segreta richiesta dal Papa, quest’ultimo aveva suggerito al Sovrano di lasciare l’Italia, onde evitare possibili disordini. Il 12 giugno De Gasperi informò il Consiglio dei ministri che il Re, per pacificare gli animi, si era recato in una villa fuori Roma, con il che era venuta meno la questione della fonte dei poteri del Capo dello Stato provvisorio. Il Consiglio dei Ministri decise senz’altro il conferimento delle relative funzioni a De Gasperi; mentre Umberto, senza attendere il responso della Cassazione, fece predisporre l’aereo che lo avrebbe portato via dall’Italia, avendo rifiutato i tre piani segreti che gli erano stati sottoposti da Lucifero e Scialoja: 1) intervento delle Forze armate italiane, ancora vincolate al giuramento, poiché ciò avrebbe provocato la guerra civile ed il Trono si sarebbe macchiato di sangue; 2) trasferimento del Re a Napoli, ma ciò avrebbe diviso in due il Paese, rinnovellando al contempo l’immagine della fuga di Pescara; 3) resistere a Roma, in modo che l’iniziativa della violenza partisse dai repubblicani, ma anche qui il sovrano disse: “Non voglio un trono macchiato di sangue. Mi sono costantemente preoccupato di non intaccare la compattezza delle Forze armate. È soprattutto per questo che, come militare, cercai, finché fu possibile, di giungere ad un regolare passaggio di poteri. Intendo evitare la ripetizione dell’8 settembre”.
Al presidente del Consiglio 12 giugno scrisse una nobile lettera prima della partenza dal suolo italiano: “Signor presidente, ritengo opportuno confermare ancora una volta la mia decisa volontà di rispettare il responso della maggioranza del Popolo italiano espresso dagli elettori votanti, quale risulterà dagli accertamenti e dal giudizio definitivo della Corte Suprema di Cassazione, chiamata per legge a consacrarlo. Poiché questo proposito è di certo comune a tutti, come il desiderio di apportare il massimo contributo alla pacificazione degli spiriti, sono sicuro che possiamo ancora continuare in quella collaborazione intesa a mantenere quanto è veramente indispensabile: l’unità d’Italia. Accolga, signor presidente, l’espressione dei miei migliori sentimenti”. Il Consiglio dei ministri rispose che la proclamazione dei risultati referendari fatta il 10 giugno dalla Cassazione, aveva “portato automaticamente all’instaurazione di un regime transitorio, durante il quale – scrisse – fino a quando l’Assemblea costituente non abbia nominato il capo provvisorio dello Stato”, l’esercizio delle relative funzioni sarebbe spettato ope legis al presidente del Consiglio in carica. Il 13 giugno Il Re prima di lasciare l’Italia, rivolse un proclama alla nazione, ricordando che nell’assumere la Luogotenenza generale del Regno prima, e la Corona poi, aveva assicurato che si sarebbe inchinato al voto del Popolo, liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello Stato. Eguale affermazione – ricordò – aveva fatto subito dopo il 2 giugno, sicuro – disse – “che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del referendum”. Viceversa, nella notte, “in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della Magistratura” – continuò – il Governo aveva compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo con atto unilaterale ed arbitrario poteri che non gli spettavano, ponendolo “nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire violenza. Non volendo opporre la forza al sopruso, nel rendermi complice della illegalità che il Governo ha commesso, io lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta: protesta nel nome della Corona e di tutto il Popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto. A tutti color che ancora conservano la fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l’esortazione a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con l’animo sereno colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia Patria. Si considerano sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d’Italia e il mio saluto a tutti gli italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli”.
Il 13 giugno Umberto II in una sobria e commossa cerimonia salutò i dipendenti della Real Casa convenuti alla Vetrata e i Corazzieri, schierati al centro del Cortile d’Onore al comando del Tenente colonnello Riario Sforza, mentre nei pressi dell’uscita erano disposti i Granatieri di Sardegna, di cui negli anni Trenta il giovane Principe aveva comandato la Brigata. Allorché la vettura Reale con lo stendardo sabaudo uscì dal Quirinale, Corazzieri e Granatieri gridarono – per l’ultima volta – “Viva il Re!”. Tutti gli appartenenti alle Forze Armate erano già stati sciolti dal giuramento di fedeltà alla Corona, ma non da quello alla Patria. Al Torrino fu ammainato il tricolore sabaudo: quella mesta cerimonia di commiato, segnata da intensa commozione generale, costituì il simbolico passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, di cui i Granatieri ed i Corazzieri furono i primi testimoni ed eredi. La Suprema Corte il 18 giugno sancì che l’articolo 2 del Disegno di Legge 16marzo 1946, numero 98, andava interpretato nel senso che “maggioranza degli elettori votanti”, era da intendersi come quella degli elettori che avevano espresso voti validi, che alla stregua dei conteggi aggiornati risultarono: 12.717.923 alla Repubblica e 10.719.264 alla Monarchia. Era passato quasi un secolo da quando Vittorio Emanuele II aveva detto al Josef Radetzky – secondo la tradizione – “Casa Savoia conosce la via dell’esilio, ma non quella del disonore”. Quella medesima via fu scelta dal lontano erede, per mantenere fede e dare nuova luce a quel principio dell’onore, che era stato offuscato dalla contaminazione totalitaria.
A distanza di 15 anni dal mutamento istituzionale, un acuto osservatore come Domenico Bartoli, scrisse: “Il giudizio che gli italiani diedero il 2 giugno non si fondava sull’opera di Umberto. La maggior parte degli elettori espresse il proprio voto avendo nella memoria il regno di Vittorio Emanuele III, oppure tenendo conto di una preferenza ideale che poco risentiva, il più delle volte, di quanto Umberto aveva fatto in quei giorni. Si votò più sul passato che per l’avvenire: si seguirono più i sentimenti che la ragione, più gli odi, gli affetti, le ripugnanze, che il calcolo politico. Non poteva essere altrimenti”. Si era così avverato il “profetico monito” di Ruggiero Bonghi il quale, a fine Ottocento, aveva affermato che al Re, prima che ad ogni altro, spettava di vigilare sul corretto agire del Governo, in quanto – diceva testualmente – “Il Principe è perpetuo. Rivive, appena morto, nel suo successore, e la macchia, una volta contratta, si espande sulla dinastia, e le affievolisce quella virtù secreta, che misteriosamente la sostenta di secolo in secolo”. Vittorio Emanuele III era dinasticamente venuto a mancare, nel momento della sofferta abdicazione.
(*) Consigliere della Presidenza della Repubblica a riposo
Aggiornato il 03 novembre 2025 alle ore 18:08
