
Le dismissioni Inps rivelano il vizio originario dello statalismo italiano: confondere previdenza e speculazione, immobilizzare risorse, negare la libertà dei cittadini di gestire ciò che appartiene loro di diritto.
In un Paese normale, l’Inps dovrebbe occuparsi di pensioni. Punto. In Italia, invece, l’ente previdenziale è diventato un palazzinaro forzato, ora impegnato a liberarsi di un patrimonio immobiliare che non avrebbe mai dovuto accumulare. A settembre 2025 sono state infatti messe all’asta abitazioni e locali tra Roma, Trento e altre città, in un’operazione presentata come occasione di trasparenza e modernità. In realtà, si tratta della resa dei conti di decenni di statalismo: il frutto amaro di un’istituzione che, invece di limitarsi al suo compito, si è trasformata in gestore di palazzi.
Non c’è nulla di virtuoso nel fatto che oggi si venda ciò che non avrebbe mai dovuto essere in mano pubblica. Il patrimonio immobiliare dell’istituto previdenziale nasce da operazioni come le cartolarizzazioni Scip 1 e 2 e da eredità di enti soppressi, ed è stato per anni sottratto al sistema degli scambi, congelato in atti di proprietà burocratica. Mentre i cittadini versavano contributi e tasse, esso accumulava appartamenti e uffici: mattoni sottratti all’iniziativa privata, capitali immobilizzati anziché investiti. Ora, invece di ammettere l’errore, lo Stato si traveste da banditore e chiede ai cittadini di competere per ricomprare a caro prezzo quello che gli è stato tolto.
La logica è quella di sempre: il Leviatano occupa spazi che non gli spettano, soffoca la concorrenza, restituisce solo quando è costretto. Ogni immobile gestito dalla burocrazia è stato per anni un bene abbandonato o mal amministrato; adesso che il bilancio scricchiola, si improvvisa una svendita che non nasce da virtù, bensì da necessità. Non è il mercato che guida lo Stato: è quest’ultimo che usa il primo come terapia intensiva, dopo averlo per anni represso.
Il paradosso è evidente. Si celebra la digitalizzazione delle aste, con piattaforme telematiche e controlli notarili, come se bastasse un clic a trasformare un’ingiustizia in giustizia. Tuttavia, non è la forma che conta: è la sostanza. Non è la modalità online a liberare i cittadini, è la fine del dominio pubblico sulla proprietà privata. La vera domanda non è come vengano venduti questi immobili, quanto perché l’amministrazione statale li abbia posseduti per decenni.
Il culto del pubblico ha reso naturale ciò che è mostruoso: enti e ministeri padroni di case, terreni e palazzi. Si plaude alla dismissione come se fosse un grande passo avanti, quando in verità si tratta di una tardiva restituzione. Ogni volta che l’amministrazione statale si ritira, il mercato dimostra la sua vitalità: prezzi reali, concorrenza autentica, valorizzazione vera. Non è il potere politico a creare valore: è il mercato che lo genera, nonostante gli ostacoli pubblici.
I dati lo confermano. Secondo Idealista/news, nei primi sei mesi del 2025 le aste immobiliari in Italia hanno riguardato 54.673 immobili, per un valore complessivo di 8,48 miliardi di euro, in aumento rispetto ai 7,36 miliardi dello stesso periodo del 2024. Allo stesso tempo, però, il numero totale di aste è calato del 15,9 per cento rispetto all’anno precedente, mentre il valore medio per immobile è cresciuto. L’Osservatorio Aste di Brick (Berry Srl) ha spiegato che non si tratta di un paradosso, ma della prova che, lasciato libero, il circuito economico premia la qualità e non la quantità. Una lezione che lo Stato continua a ignorare.
La storia italiana abbonda di esempi simili: dalle partecipazioni statali accumulate come francobolli agli enti previdenziali trasformati in conglomerati immobiliari, il copione non cambia mai. Il potere pubblico occupa spazi impropri, congela risorse, distrugge valore. Non basta ammodernare le procedure o cambiare la piattaforma d’asta: serve smantellare la cultura che ha legittimato per decenni questa appropriazione. Finché la proprietà resterà percepita come bottino pubblico, i cittadini resteranno sudditi e non padroni della loro vita.
La lezione è chiara e brutale: nessuna istituzione deve possedere ciò che i privati possono gestire meglio. Le aste Inps, pur potendo offrire occasioni a famiglie e investitori, restano soprattutto un atto d’accusa contro un sistema che ha preteso di fare l’immobiliarista mentre falliva nel suo compito principale. Ogni appartamento rimesso sul mercato ricorda anni di immobilismo burocratico; ogni palazzo venduto testimonia una rapina silenziosa consumata a danno della società.
Il problema non si risolve con qualche vendita episodica. Occorre una rivoluzione culturale: smettere di idolatrare il pubblico, restituire spazi e responsabilità agli individui. L’istituto della previdenza torni a occuparsi di pensioni, e lo faccia bene. Lo Stato smetta di fare il padrone e si limiti a fissare regole certe. Solo allora la proprietà tornerà a essere fondamento di libertà, anziché bottino nelle mani del potere.
Aggiornato il 24 settembre 2025 alle ore 10:28