L’università come “comunità del non–consenso” e codici etici

A proposito di “Libera università” di Tomaso Montanari

Sono molti i meriti di questo prezioso pamphlet, anzi, per prendere in prestito la definizione datane dal suo autore, “libro militante” (Libera università di Tomaso Montanari, Torino, Einaudi, 2025). Non ultimi, quelli più legati all’attualità, che dovere dell’uomo di cultura, osserva Montanari, e quindi anche, se non soprattutto, di colui che ha a che fare con l’insegnamento, vale a dire il docente universitario, è di respingere isterismi e sciovinismi nazionalistici come anche di denunciare operazioni politiche tanto disoneste intellettualmente quanto grossolane scientificamente. Se allora ragioni antiche e più recenti del conflitto russo-ucraino possono essere variamente e legittimamente valutate dalla comunità scientifica (e lo storico dell’arte ritiene, giustamente, insieme alla scrittrice, drammaturga e pittrice russa Ljudmila Stefanovna Petruševskaja che Vladimir Putin e il suo Governo guerrafondaio siano espressione di “un’idea malata di patria”), ciò nondimeno ha ragione Montanari quando scrive che “la regressione al nazionalismo bellicista che oggi attanaglia anche l’Occidente non si combatte certo con la russofobia”, russofobia che ha portato, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio del 2022, istituzioni universitarie e culturali non solo italiane a boicottare le università della Russia e finanche la diffusione di libri di autori russi.

Allo stesso modo, Montanari, pur condannando il “massacro”, di più, lo “sterminio di massa” in atto a Gaza, contesta la richiesta di boicottaggio, avanzata da molte associazioni studentesche, nei confronti delle università israeliane, in quanto ciò “significherebbe trascinare nella logica della guerra (binaria, semplificata e fatta di contrapposizioni assolute amico-nemico) anche una delle poche istituzioni che possono aiutarci a uscire da questo buco nero, che tutto divora. Le università sono come le persone: si giudicano per le scelte, non per la bandiera”. Coglie, a mio avviso, ancora nel segno il collega quando denuncia l’atteggiamento disonesto e violento di quegli intellettuali che tacciano di antisemitismo qualsiasi valutazione critica della politica del Governo israeliano, pratica vigliacca, questa, perché tesa a intimidire l’interlocutore, che pochi hanno il coraggio di farsi scivolare addosso uno stigma così infamante. Le riflessioni di Montanari hanno, peraltro, un respiro più ampio, non dettato solo dalle contingenze, pur drammatiche, della politica internazionale. Perché la società, e quindi anche il potere politico – si chiede l’autore – deve garantire all’università, e dunque anche ai docenti, la più larga libertà d’espressione? Perché le conviene, è la risposta più ragionevole, perché storicamente quella libertà ha permesso sviluppo scientifico e progresso morale e materiale. Come ha osservato Hannah Arendt in un passo di Verità e politica, citato da Montanari (e che ho già ricordato su queste colonne), passo che dovrebbe campeggiare nell’atrio di qualsiasi dipartimento, nella misura in cui l’Accademia si ricorda delle sue antiche origini, essa deve sapere di essere stata fondata dal più determinato e influente oppositore della πόλις.

Certo, il sogno di Platone non si è realizzato: l’Accademia non è mai diventata una controsocietà, e in nessun luogo sentiamo parlare di tentativi, da parte delle università, di prendere il potere. Ma ciò che Platone non ha mai immaginato è diventato vero: l’ambito politico ha riconosciuto che, in aggiunta all’imparzialità richiesta nell’amministrazione della giustizia, aveva bisogno di un’istituzione esterna alla lotta per il potere. Che questi luoghi d’insegnamento superiore siano in mani private o pubbliche non è di grande importanza; non solo la loro integrità, ma la loro stessa esistenza dipende in ogni caso dalla buona volontà del Governo. Verità molto sgradite sono emerse dalle università, e sentenze molto sgradite sono state più volte emesse dalla magistratura; (…) è difficile negare il fatto che, almeno nei Paesi con un Governo costituzionale, l’ambito politico ha riconosciuto, anche in caso di conflitto, di avere interesse all’esistenza di uomini e istituzioni sui quali non ha potere. Se così è, desta qualche perplessità quanto contemplato nel Codice etico e comportamentale approvato dall’Università per stranieri di Siena, di cui Montanari è rettore. Montanari ricorda con orgoglio nel volume come quel documento respinga “ogni forma di nazionalismo”. Mi domando: “Anche quello democratico?”. Montanari ritiene nel suo scritto che l’unica soluzione della questione palestinese sia la creazione di uno Stato per due popoli, essendo “palesemente tramontata quella di due popoli in due Stati”. Ebbene, un suo collega d’università che sostenesse la legittimità della costruzione di uno Stato palestinese, laico e democratico, non potrebbe forse essere accusato di veicolare una qualche forma di nazionalismo incompatibile con il codice etico d’ateneo?

E poiché quel codice “obbliga” tutti coloro che, a qualsiasi titolo, facciano parte della comunità accademica, un suo membro qualora non dovesse riconoscere, come si legge nel Preambolo, quale “patria il mondo intero e l’umanità tutta” ma considerare (non rileva se a ragione o a torto) gli Stati nazionali tra gli ultimi argini rimasti a una globalizzazione economica in cui multinazionali e potenze del Big Tech tentano di vanificare qualsiasi vincolo alla loro azione, porrebbe moralmente se stesso fuori da quella comunità? Ancora, e sempre nel Preambolo, si legge che l’università senese “ripudia la guerra, in ogni sua forma”. Anche quella difensiva, fatta propria dalla Costituzione italiana (a cui più volte si richiama Montanari nel suo scritto come stella polare cui debba affidarsi anche la vita all’interno dell’Accademia), come noto, agli articoli 11, che ripudia la guerra quale “strumento di offesa” e 52, che recita come “la difesa della Patria” sia “sacro dovere del cittadino”? L’uso del termine sacralità può certamente apparire oggi cosa obsoleta se riferito ai doveri civici, ma un docente che si attardasse a ritenere ancora valido quel nesso dovrebbe per questo essere bandito dalla comunità accademica?

Da ultimo; il Preambolo, coerentemente con l’impostazione convintamente cosmopolita cui si ispira, “sostiene il diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato, il diritto di entrare in qualsiasi Paese, il diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornarci”. A rigore, quindi, un docente dell’Università per gli stranieri di Siena che, pur caldeggiando la più ampia libertà di circolazione internazionale, dovesse ritenere impraticabile un diritto assoluto a trasferirsi dove si vuole, dovrebbe sentirsi tenuto lui in coscienza a trasferirsi in un altro ateneo? Montanari considera quella universitaria una “comunità del non–consenso” e richiama, aderendovi, e io con lui, l’insegnamento einaudiano secondo cui, anche e soprattutto nell’università, “l’unica guarentigia del progresso scientifico sta nella assoluta libertà, anche nella libertà, nel campo del pensiero, della ribellione a tutti i principi universalmente accolti ed a tutte le istituzioni esistenti”. È difficile comprendere come l’invito alla ribellione a qualsiasi principio possa conciliarsi con dettati normativi che principi cui uniformarsi, invece, impongono.

(*) Libera università di Tomaso Montanari, Einaudi 2025, 136 pagine, 13 euro

Aggiornato il 08 settembre 2025 alle ore 10:38