
“Bambini: tutti giù per terra!”. Così recitava un antico gioco d’infanzia. Vale ancora oggi per la nostra difesa occidentale in fasce, regredita all’età immatura. Per capire il problema, servirà il seguente esempio eclatante. Un carro armato (tank) anni 40 era solo una massa di ferro mossa da una meccanica essenziale, tutta forza bruta e imprecisione, con le seguenti dotazioni: un cruscotto di bordo rudimentale a valvole; un cannone; una mitragliatrice in torretta (che di certo non sparava da sola, come accade oggi); cingoli; serbatoio per il carburante; un equipaggio di tre/quattro uomini pigiati come pulcini nell’uovo, costretto a sparare a vista in campo aperto, o a orientare il tiro secondo coordinate approssimative, da settare manualmente e impartite da una voce gracchiante via radio. Oggi, invece, nel terzo decennio del XXI sec., i sofisticati tank M1 Abrams americani non muovono un cingolo senza la guida radar/satellitare, e hanno a bordo più semiconduttori di una sala operativa per la messa in orbita dei satelliti. Per non parlare del loro software, sempre in continuo aggiornamento. Ma i “chip” (sia degli Abrams come degli F-35) come si sa, vengono manifatturati con le terre rare cinesi, per cui uno scontro su Taiwan significherebbe che l’America resterebbe appiedata dopo un solo anno di guerra convenzionale con la Cina. Questo per un domani ipotetico: oggi c’è ancora di peggio. Vediamo perché, facendoci aiutare dai dati e dalle informazioni fornite dall’aggiornatissimo e reverendissimo settimanale inglese The Economist.
Partiamo dal modernissimo gioiello Usa M1 Abrams, prodotto dalla Jsmc (Joint System Manufactoring Center). Sapete qual è il massimo possibile di carri (tank) di quel tipo che la maison può produrre al mese? Due: sì avete capito bene, DUE, al costo unitario di 9 milioni di dollari. Dei 30 Abrams dati all’Ucraina, 20 li ha fatti fuori l’Armata Rossa, e gli altri sono stati ritirati. E conoscete per caso l’età media dei lavoratori del settore dell’industria degli armamenti Usa? Risposta dell’Economist: 59. Quindi, questa cifra la dice molto lunga sullo stato di salute dei sistemi di difesa occidentali. Per non parlare poi dei caccia di sesta generazione, in grado di guidare su bersagli multipli una flotta di droni. A parte il costo unitario di ogni aereo di quel tipo, pari a 300 milioni di dollari, occorrono 18 mesi per fabbricare un solo esemplare (aerei e carri ultramoderni sono fatti a mano, come le Rolls Royce anni 30), e occorrono almeno due anni per la produzione di un missile a lunga gittata! Per capire il dramma: la guerra in Ucraina ha svuotato gli arsenali statunitensi, esaurendo gli stock dello Zio Sam di proiettili d’artiglieria da 155mm. Bene: sapere quanti obici all’anno può al massimo produrre l’industria statunitense rinforzata? Soltanto mezzo milione, ci dice l’Economist: cioè, appena un terzo dell’equivalente consumato per ogni anno di guerra dall’esercito ucraino. Poi dici perché perdi, visto che in una guerra convenzionale la spunta chi produce armi più in fretta e in maggiore quantità (standardizzata) del suo nemico che, per di più, in questo caso ha molti meno uomini da impiegare in battaglia! Questo per la vuota retorica dei nostri “Volenterosi”.
Per netto contrasto con la sconcertante realtà dell’industria della difesa occidentale, vediamo invece come sta funzionando oggi in Ucraina l’auto-produzione di droni home-made. La prima cosa da notare è, per così dire, la location: non immensi edifici in cemento e ferro, con annesse gigantesche aree di stoccaggio, ma modesti baracconi dispersi da qualche parte nelle aree rurali ucraine, per nasconderli ai droni Shahed russificati e ai missili ultrasonici Iskander russi. A ritmo trimestrale, le numerose e giovanissime aziende ucraine, in cui si costruiscono droni avanzati, progettano nuovi modelli che vengono messi in produzione a soli quattro mesi di distanza, e a ritmi pari al doppio dell’output delle industrie americane equivalenti. Per capire la posta in gioco “per tutti” (dato che il ritorno in campo della “Forza” obbliga le Nazioni ad aumentare significativamente le spese per la difesa), è bene ricordare che cosa accadde all’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, quando la flotta di Vladimir Putin in Mar Nero dominava incontrastata nella sua hubris. Solo due anni dopo, quella stessa squadra navale è stata decimata dai droni marini ucraini, trovando rifugio nei porti sicuri della Crimea. Dal punto di vista sistemico, dopo la fine della Guerra Fredda, le industrie americane della difesa hanno pensato a consolidarsi, ultra specializzandosi nelle parti di ricambio, per cui intercettano in regime di monopolio “tutti” gli appalti di settore della difesa Usa. Al contrario di loro, le economie di guerra ultramoderne, come quella Ucraina, si contraddistinguono per l’alta flessibilità e diversificazione delle aziende produttive di settore, dimostrando come sia oggi la sola maniera di sopravvivere a un gigante degli armamenti erede dell’ex impero sovietico.
E proprio la lentezza delle procedure d’appalto, in America come in Europa, con l’aggiunta pesante del monopolio dei modelli americani in materia di aerei da caccia, fa dell’industria della difesa occidentale un gigante dai piedi di argilla, che non potrà mantenere nessuna delle promesse fatte, in merito alle sue future forniture di armi all’Ucraina. Notazione non secondaria: i sistemi d’arma avanzati (navi, aerei, mezzi corazzati, droni, e così via), che funzionano attraverso sempre più sofisticati sistemi computerizzati, possono essere letteralmente paralizzati a distanza dai cyber attack da parte di hacker alieni e dalle tecniche di Ew (Electronic warfare): tanto è vero che la Marina Usa ha reintrodotto nelle sue scuole di guerra la navigazione celeste, per orientarsi con le stelle come le navi di Odisseo. Altra sconcertante constatazione: la somma della spesa annuale di Ue e Usa per armamenti è superiore a quella di Cina e Russia messe assieme. Senza stare poi ad analizzare la parte dei giganteschi sussidi statali, concessi in Occidente al complesso militar industriale per ragioni di sicurezza nazionale, con la scusa che, in caso del passaggio increscioso a un’economia di guerra, la spesa per la riconversione sarebbe in tal caso molto minore. Vero per gli stabilimenti Ford degli anni 30. Assolutamente falso nel XXI sec, dove la tecnologia richiede il massimo coordinamento di una pletora di filiere produttive ultra-specializzate e molta più mano d’opera con skill elevati, data l’altissima interdipendenza sui campi di battaglia dei sistemi d’arma moderni.
Si pensi soltanto all’expertise che serve per la modifica della testata di un missile Cruise. Invece, a proposito di flessibilità, poiché più dell’80 per cento dell’industria leggera degli armamenti ucraina è di proprietà statale, è facile triplicare la produzione, bypassando i tempi lunghi dell’espletamento di estenuanti gare d’appalto! Per questa ragione, se gli ucraini producevano 45mila proiettili di artiglieria da 155mm nel 2022, nel 2024 i pezzi prodotti erano 2,4 milioni, mentre nel frattempo è anche triplicata la produzione autoctona di mezzi corazzati e droni, che in quest’ultimo caso ha raggiunto i 2,2milioni di unità, pari al 95 per cento del fabbisogno nazionale, dato che per la loro manifattura non servono macchinari complessi e costosi. Morale: in uno scontro convenzionale teorico tra blocchi, quello occidentale esaurirebbe tutte le sue riserve di armi avanzate in poco più di un anno. Allora: meno armi pesanti e molta più materia grigia sui campi di battaglia e, soprattutto, molti più automata per il facchinaggio a terra (trasporto viveri, materiali, feriti e così via) per risparmiare vite di soldati!
Aggiornato il 29 luglio 2025 alle ore 12:43