Strategie per migranti e società multietnica

“Come si fa a garantire (o a tentare di garantire) un futuro di pacifica convivenza fra persone di differente provenienza culturale?” Questa è la domanda pertinentissima, d’importanza capitale per l’Italia e per l’Europa, che Angelo Panebianco ha posto a sé e agli altri sul Corriere della Sera a proposito della società multietnica e della mancanza di strategie per i migranti. Le osservazioni dell’illustre politologo sono tanto veritiere quanto sconfortanti: il modello multiculturale, tipo Gran Bretagna, e il modello assimilazionista, tipo Francia, “non hanno funzionato, come dimostrano i tanti segnali di conflitti interetnici.” Quanto all’Italia, l’inverno demografico rende indispensabile l’immigrazione regolata, il che vuol dire, tuttavia, che “fuori tutti” e “dentro tutti” sono opzioni da bar, non soluzioni realistiche.

Angelo Panebianco conclude con un appello che, intrinsecamente drammatico, dovrebbe essere pertanto uno dei principali, se non il principale assillo della classe politica: “Occorre che un po’ di teste pensanti, quale che sia l’orientamento ideologico o ideale, comincino a riflettere sulle strategie da adottare per tentare di garantire a tutti una civile convivenza”. Sommessamente, senza voler ambire addirittura al ruolo di testa pensante, ritengo che il problema delle strategie posto da Panebianco possa e debba essere, proficuamente, scisso in due branche distinte, che individuerei nelle strategie dell’immigrazione e dell’accoglienza e nelle strategie dell’assimilazione e della convivenza.

Circa l’immigrazione e l’accoglienza, basta dire che il fenomeno è complesso qualitativamente ed enorme quantitativamente. Il principio delle soluzioni possibili è da cercare nella politica dell’Unione europea, che purtroppo, anche in tali ambiti, è poco federale e troppo confederale. Non è il momento di avventurarmici. Circa l’assimilazione e la convivenza, invece, è mia meditata opinione che esse debbano essere regolate sul principio morale, politico, giuridico che caratterizza la società civile: l’uguaglianza davanti alla legge, l’articolo 3 della Costituzione, il plinto della democrazia. Anche senza richiamare espressamente le considerazioni di Alexis de Tocqueville sulla democrazia in America, sta di fatto che, almeno fino alla presidenza Trump, l’uguaglianza legale era considerata dagli americani la base della loro convivenza civile, sebbene le storiche vicende dell’integrazione razziale l’abbiano talvolta contraddetta nei fatti. A mio parere, niente fa sentire integrato in una comunità di indigeni un individuo estraneo quanto constatare di essere trattato alla stessa stregua di costoro, ai quali egli non appartiene per la provenienza straniera, pur con permesso di soggiorno.

A parte l’immigrato irregolare, che pone problemi di convivenza/allontanamento affatto specifici, l’immigrato regolare percepisce immediatamente se “La Legge”, qui intesa come Stato nel complesso, gli è ostile o favorevole. Egli non calcola l’ostilità o il favore in termini assoluti di persecuzione o privilegio, ma considera la condizione mediana di una equa considerazione legale e fattuale da parte delle autorità dello Stato di cui, magari non essendone ancora diventato cittadino, tuttavia è parte come membro della comunità oltre che attivo soggetto economico e contribuente fiscale.

Non solo la convivenza con la comunità che l’ha accolto, ma anche l’assimilazione dell’immigrato regolare viene favorita dal fatto che “La Legge” è equanime con lui, non lo discrimina. Sentendosi uguale per legge a coloro ai quali è tuttavia estraneo, è portato naturalmente ad integrarsi, cioè ad assorbire e recepire la cultura del contesto sociale, nel senso più ampio. Infatti, quando i rapporti tra l’immigrato e “La Legge” vanno come dovrebbero andare, l’integrazione appare evidente già nel corso della vita anche dai più banali segni prodotti dal processo d’acculturazione. Convivenza e assimilazione sono interconnesse, strettamente interconnesse, sicché una buona convivenza tra indigeni ed immigrati ne propizia l’assimilazione.

Ma a questo punto occorre chiarire in modo assoluto un punto cruciale. L’applicazione della legge all’immigrato, straniero o cittadino, dev’essere davvero uguale per sprigionare ogni possibile benefico effetto sull’assimilazione e sulla convivenza. Egli deve verificare di fatto che non solo viene trattato allo stesso modo dell’indigeno, ma pure che lui stesso non è per legge diverso da ogni altro immigrato. In sostanza “La Legge” non deve creare nessuna “enclave giuridica”, soggettiva o spaziale, dove fattualmente vige l’eccezione o la sospensione della norma. L’uguaglianza legale deve essere perseguita ed attuata con spietata equità, specialmente per tutto ciò che sia riguardabile come questione d’ordine pubblico, grande o piccola. Le discriminazioni e le illegalità, che vengono lasciate correre, sono viepiù inaccettabili e perniciose quando instillano pure nello straniero, che viene in Italia per farsi onestamente una vita, la convinzione d’essersi illuso nell’aspettarsi il meglio dal rispetto della legge.

La strategia dell’uguaglianza legale senza eccezioni di sorta ha tra gli altri il pregio della rigorosa conformità allo Stato di diritto che applica a tutti le stesse norme generali e astratte. Essa è la base, la precondizione di azioni efficaci ai fini della convivenza e dell’assimilazione degli stranieri. Dunque s’impone, considerando pure i rigori dell’inverno demografico, già avvertiti dal sistema italiano. Nondimeno è amaro dover constatare che contro di essa serpeggia una variante obbrobriosa del “prima gl’italiani”, secondo la quale gli stranieri regolari devono essere un po’ meno uguali degli indigeni, come i meteci dell’Atene classica. E ciò a prescindere qui dai tempi e modi di farne cittadini di pieno diritto.

Aggiornato il 09 luglio 2025 alle ore 09:48