Il 5 per cento di spesa per la difesa: obiettivo “Nato” problematico

Durante queste ultime settimane, stiamo assistendo alla solita confusionaria querelle tra la maggioranza e l’opposizione su temi fondamentali. In particolare, lo scontro riguarda l’aumento delle spese militari, con i media, che a seconda dei colori politici di appartenenza, non fanno altro che aumentarne la non comprensione. Per questo, entrando nel merito dei numeri oggettivi, cercherò di dipanare ogni nebuloso dubbio sulla questione in oggetto. In primis, il vertice Nato del 24-25 giugno, svoltosi all’Aja, ha segnato una svolta epocale nella strategia di difesa dell’Alleanza Atlantica. I 32 Paesi membri hanno concordato un nuovo obiettivo di spesa militare: entro il 2035, ogni Stato dovrà destinare almeno il 5 per cento del proprio Pil alla difesa, di cui un 3,5 per cento in “core military spending” e fino a un 1,5 per cento in “defence and security-related spending”. Questo innalzamento rappresenta un passo significativo verso un radicale cambiamento delle politiche di spesa per la difesa, soprattutto rispetto all’attuale benchmark del 2 per cento, fissato nei precedenti summit. Perciò, sta emergendo un tentativo di effettuare un radicale cambio di rotta che mira a un sedicente rafforzamento della capacità militare dell’Alleanza, in risposta a uno scenario geopolitico sempre più instabile. Pertanto, compiendo un excursus a ritroso nella storia d’Italia, il nuovo target rappresenta un ritorno a livelli di spesa mai più raggiunti dal 1954, quando il nostro Paese registrò per l’ultima volta una spesa militare pari al 3,6 per cento del Pil.

Da allora, il trend è stato costantemente discendente: dal picco del 4,1 per cento nel 1952, si è scesi sotto il 3 per cento già dagli anni Sessanta, mantenendosi comunque sopra il 2 per cento fino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989. Con la fine della Guerra fredda, il calo è proseguito: nel 2015, si è toccato un minimo storico dell’1,06 per cento del Pil e solo dopo il vertice Nato di Cardiff (2014), e soprattutto con l’invasione russa della Crimea, è iniziata una modesta risalita. Nel 2024, la spesa militare italiana si attesta all’1,46 per cento del Pil e se si prendesse a riferimento il Pil del 2024, pari a circa 2.178 miliardi di euro, per raggiungere il nuovo obiettivo del 3,5 per cento in spesa “core” servirebbero oltre 76 miliardi di euro annui, contro gli attuali 32 miliardi stimati secondo la metodologia Nato. Tutto ciò, riassunto in numeri, rappresenta un aumento di circa 44 miliardi, pari al 57 per cento della spesa pubblica italiana per l’istruzione. Inoltre, a questa cifra vanno aggiunte le risorse necessarie per coprire la quota fino all’1,5 per cento di “spese connesse alla sicurezza e difesa”, un ambito ancora poco definito, ma che dovrebbe includere infrastrutture critiche, cybersicurezza, innovazione e resilienza civile. Nel novembre scorso, il ministro della Difesa Guido Crosetto aveva indicato in audizione parlamentare che, grazie agli stanziamenti della legge di bilancio, la spesa sarebbe salita all’1,6 per cento del Pil per il triennio 2025-2027. Invero, più recentemente, il ministro della Difesa ha dichiarato che l’Italia ha già raggiunto la soglia del 2 per cento “secondo la classificazione Nato”, lasciando intendere che una parte delle spese è stata riclassificata per rientrare nel perimetro delle spese militari. Infatti, resta da vedere se tali reinterpretazioni saranno validate ufficialmente dall’Alleanza, anche perché l’obiettivo del 3,5 per cento impone all’Italia una scelta strategica e politica di lungo periodo, ossia raddoppiare la propria spesa militare in un contesto di risorse pubbliche già fortemente vincolate da altri settori prioritari, come sanità, istruzione e welfare.

Quindi, se da un lato il rafforzamento della difesa appare coerente con le attuali minacce internazionali, dall’altro solleva interrogativi sulla sostenibilità economica e sull’equilibrio tra sicurezza e sviluppo sociale. In sostanza, al di là di ogni dichiarazione di circostanza o peggio ancora di propaganda (sia da parte del Governo che dell’opposizione), il nuovo corso della Nato pone l’Italia di fronte a un bivio: rivedere profondamente la propria politica di bilancio oppure negoziare un percorso di avvicinamento più graduale, visto che, in ogni caso, l’impegno richiesto non potrà più essere rinviato. Altresì, la spesa per la difesa, nella definizione Nato, comprende tutti i pagamenti effettuati dal governo nazionale per soddisfare le esigenze delle forze armate, comprese quelle degli alleati o dell’Alleanza nel suo complesso. Nello specifico, sono incluse: le spese del Ministero della Difesa, le pensioni militari, gli armamenti, le operazioni all’estero, la ricerca e sviluppo, l’assistenza militare ad altri Paesi Nato e il contributo alla struttura comune dell’Alleanza e sono invece escluse le spese per danni di guerra o difesa civile. Con la decisione del vertice dell’Aja, la Nato imprime una nuova accelerazione verso una maggiore autosufficienza militare, con tutte le conseguenze per la spesa pubblica, correndo il rischio di distrarre le risorse economiche a disposizione a danno delle politiche sociali e della sanità, considerando già i tagli effettuati al riguardo negli anni precedenti, per esigenze di bilancio. Al postutto, per l’Italia si apre una fase delicata, fatta di scelte di priorità, trasparenza nel bilancio e un dibattito pubblico necessario su cosa significhi davvero investire nella sicurezza nazionale ed europea nel XXI secolo e se ciò possa essere prioritario rispetto ad altri settori strategici di rilevanza costituzionale.

(*) Nella foto è ritratto il segretario generale della Nato Mark Rutte.

Aggiornato il 09 luglio 2025 alle ore 10:35