
Che Ilaria Salis fosse in grado di fomentare un certo tipo di becero dibattito pubblico, lo si era nitidamente inteso in occasione della sua candidatura al Parlamento europeo. La sua contrapposizione alla figura del generale Roberto Vannacci aveva rispolverato la triste dicotomia comunisti versus fascisti che, nella storia recente, ci ha spesso tenuto ostaggi di boutade banali e sterili. Il fatto si ripete in questi giorni, in occasione della diatriba concernente l’immunità da parlamentare europeo della signora Salis, con la sottile differenza che in questa circostanza si sta facendo politica – su ambo i fronti – con il delicatissimo tema del diritto alla difesa e del giusto processo. La vicenda è arcinota e riassunta abbastanza esaustivamente da Pagella Politica. La ricostruzione – non meritevole, in verità, di alcuna critica sul suo contenuto – è esemplificativa di come la questione sia stata sostanzialmente semplificata dalla sua binarizzazione. Significativo è il seguente passaggio: “Secondo i suoi sostenitori, Salis è vittima di un’ingiustizia e le accuse nei suoi confronti sono motivate politicamente. I critici, invece, la accusano di aver sfruttato l’elezione per evitare il processo, sostenendo che dovrebbe affrontarlo per dimostrare la propria innocenza”. Ciò non corrisponde ad altro che verità se si cerca uno spaccato del dibattito pubblico e politico.
Peccato che questo Tertium non datur escluda un posizionamento alternativo: chi pensa che Salis sia vittima di un’ingiustizia e, allo stesso tempo, che abbia sfruttato l’elezione non per sfuggirvi, ma per accaparrarsi una succulenta poltrona in quel di Bruxelles-Strasburgo. E ciò va detto chiaramente agli ultras ideologici dei due schieramenti, che cadono involontariamente in contraddizioni che mandano in cortocircuito i loro argomenti di bandiera. Va detto ai critici della Salis per mere motivazioni ideologiche, che spesso si annoverano tra le file degli autoproclamati campioni di garantismo. Ilaria Salis in Ungheria è stata vittima di una clamorosa ingiustizia e di un trattamento indegno di un Paese membro dell’Unione europea. E – per smentire una narrativa spesso usata come giustificazione – per quanto pessime siano le condizioni dei detenuti e degli imputati nella giustizia italiana, né in Italia, né in nessun altro Paese civile si rischierebbero 24 anni di carcere per le accuse mosse alla Salis, e neppure si verrebbe accompagnati in udienza nelle condizioni in cui abbiamo visto la Salis. Gli ammiratori del trattamento riservato da Viktor Orbán e accoliti ai propri oppositori non meritano di fregiarsi del titolo di liberali. Premesso ciò, restano sul tavolo varie ipocrisie di chi ha reso Ilaria Salis una bandiera politica. In primis, questo è di fatto il principale problema. E lo si è evinto dal giorno zero. Sul tavolo nei delicati momenti della sua detenzione c’erano le proposte di candidature dei partiti dell’area centrista e del Partito democratico – con cui le chance di elezione erano pressoché certe. La monzese ha scientemente scelto deciso di optare per Alleanza Verdi Sinistra – “in coerenza con la sua storia politica”, disse lei – non per sfuggire alle grinfie di un processo ingiusto, bensì per aderire a un disegno politico preciso.
Quello che l’ha resa la figura di riferimento dell’antifascismo militante e che l’ha, oggi, associata alle battaglie sulle occupazioni e altre questioni che poco hanno a che fare con la sua sciagurata detenzione. Chi vi scrive lo dice anche con tono deluso: coloro che si ritengono sostenitori dei diritti degli imputati, non avrebbero avuto remore ad esprimere la propria preferenza per Salis per permetterle di uscire dall’Ungheria. E qui c’è un passaggio importante che sfugge praticamente a tutti. La logica vorrebbe che una candidatura onesta – di stampo radicale, per così dire, come successo con Marco Pannella o Toni Negri – avrebbe avuto come sua ratio quella di portare, per mezzo dell’escamotage elettorale, Ilaria Salis fuori dall’Ungheria per poi attendersi le sue dimissioni. Il punto, infatti, non risiede nell’immunità, che renderebbe la condizione della Salis subalterna alla sua revoca o alla sua mancata rielezione al termine del suo mandato. Nessuno lo dice, ma anche qualora la Commissione Juri si esprimesse favorevolmente in merito alla revoca dell’immunità, non è che la Salis automaticamente verrebbe teletrasportata nelle carceri ungheresi. Supponendo che ella si trovi fisicamente in Italia – lo stesso vale per il Belgio o la Francia, per far sì che venga processata l’Ungheria deve attivare la procedura per il mandato d’arresto europeo (Mae), il processo facilitato di “estradizione” tra Stati membri.
Quello che avverrebbe, in pratica, è ciò che ogni persona ragionevole si aspetta: che Salis venga tutelata da un giudice di un Paese realmente democratico. Infatti, affinché possa essere eseguito un Mae è subordinato all’autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente in cui si trova il soggetto ricercato. Sebbene non esplicitamente espresso nel testo della decisione quadro che ne delinea la procedura, è prassi nel diritto dell’Unione europea che esso possa non esser concesso in ragione di valutazioni relative al rischio di condizioni potenzialmente pericolose per l’imputato per le più disparate ragioni. Da casi di preoccupazioni relative a potenziali processi politici, fino a dinieghi motivati dalle pessime condizioni delle carceri nel Paese di destinazione, la giurisprudenza europea sembra in molte direzioni remare in favore della Salis – vedi caso Pál Aranyosi e Robert Căldăraru e altri, anche riguardanti la stessa Ungheria. Sebbene il diritto penale europeo si basi sul principio di mutuo riconoscimento e reciprocità di fiducia, tale fiducia non può essere cieca rispetto a palesi violazioni del divieto di trattamenti inumani e degradanti (articolo 3 Cedu) o dei basilari diritti degli imputati (tutelati dagli articoli 47-48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Perché allora la Salis non si affida a un giudizio di un giudice italiano in merito all’ammissibilità della sua estradizione in Ungheria? Per onestà intellettuale, non c’è alcun nesso tra revoca dell’immunità parlamentare e decadenza dal ruolo di europarlamentare – che non sarebbe automatica nemmeno in caso di condanna. A qualche malpensante, allora, verrebbe da dire che l’immunità serva alla Salis per altre vicende non connesse alla questione ungherese. Quel che è certo è che fa sorridere veder schierarsi a favore del concetto di immunità parlamentare quelli che, per il Parlamento italiano, vorrebbero abolirla, quando ci sarebbe, invece, bisogno di ripristinare il regime costituzionale dell’articolo 68 in vigore prima di Mani pulite. Ma questo è un pezzo di un’altra storia piena di ipocrisie, ovunque.
Aggiornato il 24 giugno 2025 alle ore 11:00