L’eterna questione meridionale

Gli esperti di psicologia della comunicazione sostengono che nella società dell’iper-informazione se un problema non riceve la giusta attenzione da parte dei mass media scompare, come d’incanto, dal dibattito pubblico. È, di fatto, quel che è accaduto negli ultimi anni con la questione meridionale. Eppure, non vi è rapporto Svimez che non sciorini puntualmente ogni anno cifre e tendenze che rendono ragione del crescente divario fra il Nord e il Sud del nostro Paese. Vi sono numeri che chiariscono i termini del problema meglio di qualsivoglia considerazione: secondo la Cgia di Mestre in due lustri, fra il 2014 e il 2024, nella fascia di età compresa fra i 15 e 34 anni la popolazione meridionale è diminuita di 747mila unità. In alcune regioni, come la Puglia, la percentuale di emigrazione sfiora il 15 per cento. Risultati non dissimili giungono da altri osservatori economici. Si abbandona la propria città di origine (anche se con un grado di istruzione superiore rispetto al passato) sempre per il medesimo motivo: si va alla ricerca di migliori opportunità di lavoro e di vita. Difficile, dopo 164 anni dall’Unità, non interrogarsi sulle ragioni che continuano, ieri come oggi, a determinare un tale divario economico, sociale e civile.

La primogenitura dell’espressione “questione meridionale” risale a un saggio del 1878 che porta la firma dello storico Pasquale Villari. Dopodiché, nei decenni a venire, a cimentarsi con il problema del sottosviluppo del Sud troviamo le menti più lucide della cultura e della politica italiane: da Giustino Fortunato a Francesco Saverio Nitti, da Gaetano Salvemini ad Antonio Gramsci, da Don Luigi Sturzo a Giovanni Amendola. Pur con sfumature diverse, tutte le analisi individuavano nella scarsa capacità economica la causa principale dell’arretratezza del Mezzogiorno. Pertanto, vi era una sola strada per riscattare questa parte d’Italia: lo Stato centrale avrebbe dovuto destinare alle regioni meridionali maggiori risorse, per rimettere in equilibrio le due realtà del Paese. Il secondo Novecento è segnato dal trasferimento di ingenti capitali verso il Sud (con punte particolarmente significative raggiunte con gli interventi straordinari della Cassa per il Mezzogiorno). L’obiettivo era quello di avviare un processo che mettesse il Mezzogiorno sui binari della modernizzazione e che riducesse finalmente il fossato fra le “due Italie”. Purtroppo, non si è verificato nulla di simile. Anzi, come documentato da numerosi studi socio-economici, quei capitali non solo non hanno funzionato come volàno dello sviluppo, ma hanno contribuito a consolidare la tradizionale pratica clientelare di una classe politica che definire mediocre è dire poco. Infatti, come scrive Sabino Cassese in Lezioni sul meridionalismo, “numerose ricerche hanno dimostrato che il Sud costa di più per pensioni di invalidità e che le Regioni e i Comuni registrano un numero di dipendenti e una spesa per abitante superiore rispetto al Nord”. L’elenco delle differenze di spesa è molto lungo, per poterlo riportare, ma riguarda tutte le voci dei bilanci municipali e regionali.

Intanto, nuove analisi comparatistiche stanno spostando il centro dell’attenzione dagli aspetti economici al ruolo che viene svolto dalle istituzioni e dalle classi dirigenti locali nell’avviare percorsi di modernizzazione. Da questo tipo d’indagini si apprende che nelle realtà territoriali in cui si registrano “fenomeni corruttivi, scarso rispetto della legalità e difficoltà nel potere effettuare investimenti in un clima di certezza del diritto, i processi di accumulazione della ricchezza e di ridistribuzione risultano al di sotto degli standard conosciuti nel mondo occidentale”. In tal senso, il meridionalista Guido Dorso già nel 1924, su La rivoluzione liberale diretta e fondata da Piero Gobetti, poneva l’accento sulla necessità di “fare maturare anche nel Meridione una qualificata classe dirigente, pena l’impossibilità di colmare un divario che prima che economico è di ordine civile e culturale”. Lezione da ricordare in questi mesi caratterizzati dal trasferimento al Sud del 40 per cento dei fondi del Pnrr.

Aggiornato il 05 giugno 2025 alle ore 11:10