
Abbiamo un problema serio e immediato. Sono gli omicidi di donne. Oggi si chiamano femminicidi. È una nuova fattispecie. Taluno la contesta. Le donne sono oggetto di omicidio come gli uomini, dicono. Ma le donne subiscono omicidi di genere. La prova è anche nella storia giuridica italiana, e non solo. Non troppi anni fa il Codice penale proteggeva il femminicida. Così come proteggeva lo stupratore, attraverso il ‘matrimonio riparatore’. La dichiarazione di delitto passionale era un’esenzione di colpa. A corredo, fino agli anni 70 del 1900 una donna non poteva avere un conto corrente bancario senza l’assenso del marito. E via via occorrevano assensi nella disposizione del patrimonio familiare. Una prigione socialmente poco avvertita. Era normale, allora. Oggi, per fortuna, è cambiato tutto. Ed è bene ricordare che, se un tempo c’è stata una mitigazione di colpa per gli assassini di donne, oggi occorre stigmatizzare questi specifici reati perché esistevano ed esistono. Sono particolarmente odiosi. Solo qualche giorno fa è stata uccisa una bimba di quattordici anni. L’assassino, un cretino di diciannove. Non può esserci un’aggravante nell’idiozia. Bisogna introdurre un’aggravante per il femminicidio.
Che le pene per omicidio femminile siano superiori al minimo previsto per l’omicidio in generale è un primo passo da poter applicare subito. La possibilità che il colpevole di omicidio femminile abbia un trattamento carcerario che preveda il ravvedimento è ovviamente un principio irrinunciabile. Che debba però scontare la pena senza più la possibilità di fare del male deve essere chiaro. A costo di riesumare l’istituto del confino, in aree del Paese controllabili e poco popolate. Che ci possa essere come pena accessoria una sorta di morte civile parziale, dovrebbe essere d’aiuto allo stesso colpevole che si ravvede. Chi si ravvede davvero chiede di essere perdonato e di espiare, in qualche modo. Non avrà alcuna difficoltà a limitare le proprie opportunità sociali, in coscienza.
Ma esiste una questione irrisolta anche prima della commissione del reato.
Perché l’omicida di donne, il femminicida, non può essere fermato prima?
L’uomo che uccide la propria ex compagna è un uomo debole. La sua miseria sta nel fatto che non è in grado di sentirsi uomo senza il dominio della sua realtà. Quella realtà ingloba la compagna.
Non possiamo assumere questa tesi come regola generale, ma è indubbio che l’uomo che scatena la propria violenza è debole psicologicamente. Sente l’affronto della separazione. Perde la sua capacità di sentirsi ‘forte’ perché socialmente ha paura di essere considerato uno incapace di mantenere il controllo della ‘propria’ donna. E la uccide. Anche perché scopre improvvisamente che il dominio sul mondo che immaginava di esercitare non esiste. Non può esistere.
Può essere curata questa debolezza? Può essere anticipata? Possono essere educate le persone a conoscere e gestire le proprie debolezze?
Un’associazione catanese ha messo a punto un metodo di intervento per educare alla regolazione delle emozioni. Si chiama Ali. È un piccolo gioiello scientifico messo a punto in seno all’Università di Catania. Il metodo è stato applicato finora come attività di messa alla prova per i minori del Tribunale di Catania. Le ragazze e i ragazzi partecipano, riflettono, si autovalutano.
Perché il punto è questo: la capacità di auto valutarsi. Capire la propria debolezza come causa della violazione delle norme sociali, prima ancora delle norme penali.
Dobbiamo quindi cominciare a cambiare il nostro approccio ai reati più gravi. Cercare di anticipare il nemico, per quanto possibile. Occorre anche un alleato che al momento manca: uno Stato che riesca a funzionare. Le aspirazioni ad avere una polizia efficiente, una magistratura credibile, una politica competente e decisa, oltre che decisiva, si scontrano con la realtà. E questo significa che l’alleato principale, lo Stato, non è affidabile. Perché come noi soffre di stereotipi e pregiudizi. Chi gestisce lo Stato pensa che i cittadini possano non apprezzare le regole. E sbaglia.
In fondo, è la stessa malattia della quale soffriamo sul piano internazionale. Sappiamo di dover resistere ai totalitarismi. Sappiamo che l’uso della forza arbitraria e ingiustificata deve essere inammissibile. Sappiamo che l’equilibrio nel mondo dipende dalla capacità di deterrenza, vale a dire la capacità nostra di essere una forza tranquilla capace di scoraggiare l’uso della violenza ingiustificata. Eppure, non facciamo ciò che è necessario per metterci al sicuro: dotarci del potere sovrano di voto per istituzioni europee che garantiscano quel potere educativo e di dissuasione che ci occorre.
Dalla lotta ai femminicidi all’equilibrio del mondo, che occorre anche per impedire le migliaia di stupri quotidiani che chi promuove le guerre, come la Russia di Putin, istigano. Abbiamo però gli strumenti e conosciamo le soluzioni per mettere fine a questi aspetti. E come i gestori dello Stato, siamo timidi, se non passivi.
Dobbiamo sconfiggere pigrizia, pregiudizi e stereotipi. Dobbiamo fare qualcosa di concreto. Ottenere il diritto di sovranità dei popoli europei con istituzioni continentali rappresentative è il primo passo per rendere più forte la nostra vita politica. Cominciare a combattere la debolezza umana con un metodo efficace per auto valutare la propria capacità di regolazione delle emozioni è l’altro.
Non sono temi distinti. Il tema è lo stesso. La vita che vogliamo e alla quale siamo abituati. Senza lo stereotipo della paura di essere soli. Non siamo soli se parliamo. Siamo in compagnia dell’intero mondo se agiamo. Possiamo chiedere con una firma il diritto alla sovranità popolare europea; possiamo chiedere l’educazione alle emozioni come il Tribunale di Catania ha cominciato a fare.
Per firmare per la Costituente Europea: https://chng.it/g2LRgt9tjx
Aggiornato il 29 maggio 2025 alle ore 15:45