Referendum sul lavoro: l’equivoco della precarietà

Quattro dei cinque referendum abrogativi per cui si voterà l’8 e il 9 giugno si propongono di modificare le regole del mercato del lavoro, alcune delle quali introdotte dal Jobs Act del Governo Renzi: i primi tre quesiti, in particolare, riguardano la disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi (i primi due), e quella dei contratti a termine (il terzo). Le considerazioni che seguono focalizzano l’impatto dei quesiti referendari afferenti al Jobs Act: e ciò per un preciso motivo, consistente nel fatto che l’attacco al Jobs Act è stato preceduto da un attivismo demolitorio della Corte costituzionale, che ha pochi precedenti (una decina di sentenze, quasi tutte di incostituzionalità, nell’arco di sette anni). Il primo quesito riguarda il regime sanzionatorio del recesso datoriale da quello che, prima che a cancellarlo ci pensasse la Corte costituzionale con la sentenza 194/2018, era il “contratto a tutele crescenti”.

Vigente la disciplina originaria, per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 il neo-introdotto contratto a tutele crescenti aveva ridotto ulteriormente, rispetto alla legge Fornero di tre anni prima, i casi in cui operava la cosiddetta “reintegrazione” nel posto di lavoro a fronte di licenziamento illegittimo: questa, infatti, veniva confinata ai casi di nullità (anche per mancanza di forma scritta o discriminazione), disabilità addotta ma insussistente, ingiustificatezza soggettiva “qualificata” (ossia inadempimento contrattuale basato su fatto non sussistente); operando in tutti gli altri casi di illegittimità del licenziamento (quindi, nei casi di sproporzionatezza della sanzione espulsiva rispetto alla violazione disciplinare commessa, in tutti i casi di licenziamento per motivo oggettivo insussistente, e nei casi di vizio procedurale o formale) la sola tutela indennitaria, in misura diversa a seconda della gravità del vizio da cui il licenziamento fosse affetto, nonché crescente con l’anzianità di servizio (di qui l’espressione “contratto a tutela crescente”; mentre a crescere è l’indennità in caso di licenziamento illegittimo).

Senonché, ben prima che l’imminente referendum prefigurasse l’abrogazione della suddetta normativa, essa era già stata incisa dalla sentenza con cui, nel 2018, la Corte costituzionale aveva giudicato incostituzionale il meccanismo delle tutele crescenti, perché basato sulla sola anzianità di servizio: così attribuendo al giudice maggiore discrezionalità nel quantificare l’indennità. L’opera demolitrice della Consulta è poi proseguita con altre sentenze (in particolare la 128 e la 129 del 2024) che hanno riespanso la tutela reale, estendendola, tra l’altro, a tutti i casi di insussistenza del fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo, nonché al caso in cui il fatto disciplinare contestato fosse punito dalla contrattazione collettiva solo con sanzioni conservative. A fronte di siffatto quadro normativo, è interessante chiedersi quale possa essere l’effetto (giuridicamente) utile dell’ipotetico esito abrogativo del referendum. La risposta è che non si verificherebbe affatto un ripristino della reintegrazione “universale” stabilita dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori di oltre mezzo secolo fa, bensì, per tutti i lavoratori, indipendentemente dalla data di assunzione, una riespansione della Legge Fornero 92/2012, comprensiva delle non poche ipotesi di tutela indennitaria ivi già previste.

Il che dimostra, da una parte, la continuità di politica del diritto tra la Legge Fornero e il Jobs Act, e dall’altro la natura eminentemente politica dei quesiti referendari. Il secondo quesito riguarda i licenziamenti, e i relativi risarcimenti, nelle piccole imprese. Con tale quesito si chiede di eliminare i limiti massimi di risarcimento oggi previsti in caso di licenziamento senza giusta causa nelle suddette imprese. Il referendum propone di lasciare al giudice la possibilità di stabilire liberamente l’ammontare del risarcimento in base alla singola situazione. Qui la considerazione sistematica da fare è che si vorrebbe estendere al campo dei licenziamenti nelle piccole imprese la logica, già chiaramente manifestata nella sentenza 194/2018 e a nostro avviso criticabile, secondo cui l’indennità a fronte di un licenziamento illegittimo esigerebbe una quantificazione incerta, non calcolabile aritmeticamente, e affidata alla valutazione “discrezionale” del giudice: dal juge bouche de la loi, al juge legislateur! Si tratta di una deriva pan-giurisdizionale presente in molti altri territori del diritto del lavoro, per non dire di altre branche del diritto; e di una deriva che nel diritto del lavoro comparato trova secche smentite, registrandosi piuttosto, in una logica più indennitaria che risarcitoria, la valorizzazione della certezza del diritto e della conseguente conoscibilità della sanzione.

Basti pensare che, mentre la nostra Consulta discettava della funzione “dissuasiva” dell’indennità, che sarebbe stata vanificata dalla sua calcolabilità ex ante, la gemella francese avallava il criterio dell’anzianità di servizio e celebrava il valore della sua predeterminabilità. La vittoria del no ai referendum sul Jobs Act dei licenziamenti, ponendosi sulla scia delle ultime sentenze della Corte costituzionale in materia, determinerebbe un ulteriore riavvicinamento al regime dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori come riformato dalla Legge Fornero del 2012, sbarrando la strada a un percorso di flessibilizzazione e modernizzazione della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, inaugurato dalla stessa legge Fornero. Al realismo di una riforma che prende atto della irragionevolezza di una regola che impone d’autorità una collaborazione lavorativa ormai minata dal licenziamento (sia pure illegittimo), subentrerebbe ex novo l’asserita e ideologica primazia della tutela in forma specifica, passando sopra la testa dei rapporti e delle dinamiche reali dei rapporti di lavoro. Il discorso sulla certezza del diritto si ripropone in relazione alla materia dei contratti a termine, su cui incide il terzo quesito, che chiede di eliminare la possibilità attualmente prevista per i datori di lavoro di stipulare contratti a termine della durata massima di dodici mesi senza dover indicare una motivazione precisa (cosiddetta “causale”). In tale materia si registra una vicenda che ben potrebbe definirsi come “legislazione pendolare”: una legislazione, cioè, che, soprattutto con riferimento alle tipologie contrattuali, introduce modifiche disciplinari di opposto segno, ispirate da diversi principi-bandiera (in primis, la “lotta al precariato”), in corrispondenza con le maggioranze politiche tempo per tempo in auge.

È il caso dei cosiddetti (impropriamente) contratti di lavoro atipici, quali il part-time, il lavoro somministrato, il lavoro intermittente, e infine, e soprattutto, il contratto a termine. Qui il tema centrale è uno, e si propaga fin dalle origini segnate dalla legge 230/1962: l’idea, cioè, che il contratto a termine sia un contratto da disincentivare perché “precario”. È un’idea che, se poteva avere un senso negli anni Sessanta del boom economico, non lo ha in tempi di flessibilità, di flex-security e, infine, di ripensamento del concetto stesso di lavoro indotto dalle tecnologie digitali e dalle nuove scale valoriali in cui si articola oggi l’offerta di lavoro. Che così sia lo dice da tempo, ma inascoltato e anzi equivocato, il diritto europeo, donde si ricava una diversa idea: che cioè non è in sé la durata determinata del contratto a dover essere irreggimentata, bensì l’abuso derivante dalla successione di contratti a termine: abuso per evitare il quale il diritto europeo allestisce un armamentario di misure alternative, che il legislatore italiano ha reinterpretato in termini cumulativi, e applicati alla stipulazione del termine in sé, prima e oltre che alla sua reiterazione. Il referendum intende colpire l’assetto normativo introdotto, ancora una volta, dal Jobs Act renziano (quello dei “contratti”, numero 81/2015, non quello dei licenziamenti), che, stabilizzando misure liberalizzatrici precedenti, istituzionalizza, dopo oltre sessant’anni, la cosiddetta acausalità del contratto a termine.

Il referendum non visualizza, però, la cennata liberalizzazione, perché nel frattempo, analogamente a quanto avvenuto col Jobs Act dei licenziamenti, la normativa ha ricevuto una torsione in direzione opposta, per effetto – questa volta – non della giurisprudenza costituzionale ma del cosiddetto “decreto dignità” del 2018: questo decreto è intervenuto a limitare il ricorso al contratto al termine, conservando la possibilità di assumere a termine senza l’indicazione di una causale solo per i contratti della durata massima di un anno e consentendo contratti precari di maggior durata solo per specifiche ragioni. Il quadro è stato in verità ulteriormente complicato dalla entrata in vigore del cosiddetto “decreto lavoro” del 2023, che, realizzando una parziale contro-torsione, ammette la stipula di contratti a termine di durata eccedente i 12 mesi e fino a 24 mesi, solo nei casi previsti dalla contrattazione collettiva “comparativamente più rappresentativa”, o in mancanza di previsioni di tal natura, dalle parti individuali, oltre che per ragioni sostitutive di lavoratori assenti. Con l’abrogazione voluta dal referendum, che tocca i commi 1, 1 bis e 4, l’articolo 19 del decreto legislativo 81/2015, si prevederebbe, invece, che al contratto di lavoro subordinato possa essere apposto un termine di durata non eccedente i ventiquattro mesi, e solo nei casi previsti dai contratti collettivi comparativamente più rappresentativi, oppure in sostituzione di altri lavoratori (comma 1).

Inoltre, l’articolo 21 al comma 1, a seguito del referendum, consentirebbe che il contratto possa essere prorogato e rinnovato solo in presenza delle condizioni previste dall’articolo 19. L’intervento referendario verrebbe dunque a eliminare la possibilità di concludere contratti a tempo determinato sino a dodici mesi senza l’indicazione di una specifica ragione, esigenza o motivo. Sarebbe, invece, consentito concludere contratti a termine sino alla durata complessiva di ventiquattro mesi – anche a seguito di proroga o rinnovo – ma sempre qualora ricorra una delle due, e non più tre, ipotesi indicate. Come si è detto, l’intento dei promotori è quello di ridurre la cosiddetta “precarietà” del lavoro.

Sarebbe interessante guardare ai numeri, per verificare se il numero dei contratti cosiddetti “precari” e a termine sia aumentato in rapporto a quelli a tempo indeterminato (e sappiamo tutti che non è così). Così come sarebbe istruttivo verificare se la presunta liberalizzazione della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti abbia prodotto un incremento del numero dei licenziamenti (e sappiamo che non è così). Ma volendo mettere in campo solo le nostre competenze di giuristi, e chiudendo queste note, ci limitiamo a osservare come quella di precarietà non sia una nozione giuridica, non essendo a ben vedere riferibile a determinati tipi contrattuali, bensì a situazioni o status occupazionali e reddituali delle persone. Non esistono contratti precari; esistono esistenze precarie, dalle quali si esce non già imponendo la reintegrazione a fronte di licenziamento illegittimo, e tanto meno ponendo ostacoli alle assunzioni a termine; ma con una giusta miscela di politiche occupazionali, formative, salariali e welfaristiche.

(*) Ordinario di diritto del lavoro dell’Università di Milano Statale

(**) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 29 maggio 2025 alle ore 11:04