Quando la pace può rivelarsi non meno pericolosa della guerra

Le vittime dei sistemi politici del Novecento a confronto

Nel corso del Novecento la violenza politica ha assunto forme drammaticamente diverse a seconda della natura dei regimi al potere. Se le guerre rappresentano la manifestazione più macroscopica del potere distruttivo degli Stati, dato che comportano comunque, fatte salve le responsabilità di chi può averle provocate, uccisioni e massacri spesso indiscriminati da parte di tutti i belligeranti, ciò che fa la differenza tra diversi tipi di Governo non è tanto il numero e le modalità dei morti fatti in guerra, ma è piuttosto il numero dei morti – attraverso repressioni, carestie indotte, deportazioni, esperimenti, epurazioni ideologiche e pulizie etniche – fatti in tempo di pace tra i propri cittadini. Cercando di passare brevemente in rassegna i casi più significativi a livello mondiale, tra i regimi totalitari che hanno caratterizzato il secolo da poco trascorso quello sovietico si distingue per il numero straordinariamente alto di morti causate in tempo di pace. Le stime oscillano, a seconda delle diverse ricostruzioni storiche, tra i 20 e i 60 milioni di cittadini uccisi o morti in conseguenza diretta di politiche del Governo, come le carestie indotte in Ucraina negli anni Trenta, le deportazioni nei Gulag, le purghe staliniane e le repressioni etniche.

Considerando una popolazione coeva media di circa 170 milioni, il tasso di mortalità interna si colloca in una forbice compresa tra l’11,8 per cento e il 35,3 per cento. Anche la Cina maoista registra numeri comparabili, se non superiori, soprattutto a causa del fallimentare esperimento del “Grande balzo in avanti” e della successiva Rivoluzione culturale. Le stime più prudenti parlano di 45 milioni di morti, ma alcuni studi elevano la cifra fino a 73 milioni. Rapportata a una popolazione di circa 540 milioni nel 1950, la percentuale di cittadini morti per cause imputabili direttamente allo Stato varia tra l’8,3 per cento e il 13,5 per cento. Caso ancor più estremo, in termini proporzionali, è quello della Cambogia sotto il regime dei Khmer rossi tra il 1975 e il 1979: in meno di quattro anni, furono uccisi tra 1,7 e 2 milioni di cambogiani, su una popolazione totale di circa 7 milioni. La percentuale di mortalità interna è dunque compresa tra il 24 per cento e il 28,6 per cento, rendendo questo regime uno dei più letali della storia in rapporto alla popolazione. Anche il regime nazista, pur noto soprattutto per lo sterminio di massa in tempo di guerra, ha causato un numero rilevante di morti tra i propri cittadini in tempo di pace. Circa 300mila cittadini tedeschi – inclusi malati mentali, disabili, oppositori politici ed ebrei di nazionalità tedesca – furono uccisi prima e al di fuori del contesto bellico. Su una popolazione di circa 69 milioni, ciò corrisponde a un tasso dello 0,43 per cento. Il fascismo italiano presenta una dinamica diversa. Sebbene autoritario e repressivo, il regime di Benito Mussolini non fu altrettanto sanguinario all’interno dei propri confini.

Le stime delle vittime italiane per mano dello Stato in tempo di pace oscillano tra le mille e le duemila unità, su una popolazione coeva di circa 41 milioni. Il tasso di mortalità è dunque piuttosto basso, tra lo 0,002 per cento e lo 0,005 per cento, pur in un contesto di carcerazioni politiche, confino, censura e violenza squadrista. Nel panorama dei regimi autoritari del Novecento, un posto rilevante spetta anche alle dittature militari che hanno governato alcuni Paesi dell’America Latina e dell’Europa meridionale. Seppur differenti per contesto geopolitico, ideologia e durata, essi hanno in comune un ricorso sistematico alla repressione interna in tempo di pace, causando la morte o la sparizione forzata di migliaia di cittadini. Ci sono tre casi particolarmente emblematici: il Cile di Augusto Pinochet, l’Argentina sotto le giunte militari e la Grecia durante la dittatura dei colonnelli. In Cile, il generale Augusto Pinochet prese il potere nel 1973 con un colpo di Stato che depose il presidente democraticamente eletto Salvador Allende. Durante i 17 anni del suo regime, secondo quanto documentato dal Rapporto Rettig e dal Rapporto Valech, circa 3.200 cittadini furono uccisi o fatti sparire, mentre oltre 28mila furono vittime di torture. Rapportando questi numeri alla popolazione cilena dell’epoca, che contava circa 10 milioni di abitanti, si ottiene una percentuale di morti o desaparecidos pari allo 0,032 per cento. Il caso argentino, per dimensioni e brutalità, è ancora più drammatico.

Dal 1976 al 1983, il Paese fu governato da una successione di giunte militari che scatenarono una repressione senza precedenti, passata alla storia come la “Guerra sporca”. Secondo la Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas (Conadep), i desaparecidos furono almeno 12mila, ma molte fonti indipendenti alzano la stima fino a 30mila. Con una popolazione nazionale che all’epoca si aggirava intorno ai 25 milioni di persone, il tasso di cittadini uccisi o scomparsi oscilla tra lo 0,05 per cento e lo 0,12 per cento. La dittatura dei colonnelli in Grecia, al potere tra il 1967 e il 1974, ebbe un impatto repressivo meno esteso ma non privo di violenza. Le forze militari instaurarono un regime autoritario che represse duramente la dissidenza, facendo uso di arresti, torture e censura. Si contano circa 23 morti tra il 1967 e il 1974, inclusi i civili uccisi durante la rivolta del Politecnico di Atene nel 1973. La popolazione greca dell’epoca era di circa 8,8 milioni, il che porta a una percentuale di vittime dirette molto bassa, pari a circa lo 0,0005 per cento. I dati qui riportati evidenziano che, sebbene meno letali rispetto ai regimi totalitari del blocco sovietico o alle tragedie del nazismo, anche le dittature militari sudamericane ed europee hanno lasciato un’impronta sanguinosa nella storia dei loro Paesi.

Le vittime non furono solo numeri, ma individui colpiti per le loro idee, per il loro attivismo o semplicemente per essersi trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. In netto contrasto con questi numeri complessivamente intesi, le democrazie liberali del XX secolo si caratterizzano per tassi di mortalità interna in tempo di pace estremamente ridotti. Gli Stati Uniti, ad esempio, sono responsabili di alcune migliaia di morti tra i propri cittadini a causa di episodi come le repressioni del movimento per i diritti civili, programmi segreti di sperimentazione medica, incarcerazioni mortali e violenze sistemiche. Le stime più ampie parlano di 10mila-20mila morti su una popolazione media di 200 milioni, per un tasso compreso tra lo 0,005 per cento e lo 0,01 per cento. Nel Regno Unito, in Francia e in altre democrazie europee, i casi di uccisioni interne in tempo di pace sono stati ancora più contenuti, limitandosi spesso a episodi specifici legati a repressioni di scioperi, manifestazioni o movimenti separatisti. Le stime generali variano tra poche centinaia e alcune migliaia, raramente superando lo 0,01 per cento della popolazione. Ma per poter procedere a un confronto globale e sistematico a questa contabilità vanno naturalmente aggiunte le morti provocate dai conflitti bellici, in particolare, ovviamente, da parte di chi la guerra l’ha provocata.

La Seconda guerra mondiale ha causato tra i 70 e gli 85 milioni di morti, includendo civili e militari. A scatenarla fu la Germania nazista, anche grazie alla complicità dell’Unione sovietica, con l’invasione e la spartizione della Polonia nel 1939, seguita dagli attacchi dell’Italia fascista e del Giappone imperiale. La Prima guerra mondiale, a sua volta, aveva provocato tra i 15 e i 22 milioni di morti ed ebbe come principali aggressori gli imperi centrali, in particolare la Germania e l’Austria-Ungheria. La guerra di Corea, iniziata nel 1950 con l’invasione del Sud da parte del Nord comunista, provocò circa 2,5-3,5 milioni di morti. Simile la dinamica in Vietnam, dove il Nord comunista attaccò il Sud, generando un conflitto lungo vent’anni e con perdite stimate, ovviamente anche grazie al massiccio contributo americano, tra 1,1 e 4,2 milioni di vite. La guerra Iran-Iraq fu invece scatenata da Saddam Hussein nel 1980 e causò almeno mezzo milione di morti. Vi sono poi guerre civili, come quella spagnola, che provocarono centinaia di migliaia di vittime interne. Alla luce di questi dati, appare evidente che i regimi totalitari del Novecento non si sono soprattutto distinti dalle democrazie occidentali per la brutalità dei loro massacri durante le guerre, ma specialmente perché hanno inflitto ai loro stessi cittadini ingenti perdite umane anche in tempi di pace.

Al contrario, le democrazie – pur coinvolte in conflitti talora sanguinosi, caratterizzati anch’essi da azioni rubricabili come crimini contro l’umanità, come il bombardamento di Dresda e le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki – hanno mantenuto un livello di mortalità interna infinitamente più basso, confermando il ruolo essenziale delle garanzie costituzionali, della libertà di stampa e del pluralismo politico nella protezione della vita umana. In un secolo dominato dalla retorica della rivoluzione, della purezza ideologica e dal desiderio di una pace assoluta, si invece tende a dimenticare che nei regimi totalitari la pace ha provocato nel corso del tempo un numero di morti e di tragedie comparabile con quello provocato dalle guerre, mentre la democrazia ha mostrato di essere, pur con tutti i suoi difetti e pur essendo talora indotta a prendere parte a guerre evitabili e nel complesso sbagliate considerando il rapporto tra i virtuali benefici geopolitici e il costi umani ed economici, si è dimostrata il sistema politico di gran lunga meno letale per i propri cittadini. I periodi di pace, generalmente più lunghi di quelli di guerra, possono infatti rivelarsi nel complesso, per i cittadini dei regimi totalitari, non meno pericolosi di quelli di guerra, e questo anche perché possono essere in genere molto più lunghi.

Ne sa qualcosa, in particolare, il popolo ucraino, che in tempo di pace ha dovuto subire l’Holodomor, uno sterminio che in soli due anni, dal 1932 al 1933, ha comportato milioni di morti. Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: mentre i regimi totalitari hanno fatto guerra tanto alle democrazie quanto ad altri regimi totalitari – basti pensare all’Urss, che prima si spartisce la Polonia con la Germania nazista, e poi deve affrontare in una guerra devastante l’esercito invasore dell’ex alleato, o più di recente al conflitto tra Iran e Iraq – dopo il primo conflitto mondiale le democrazie hanno evitato di farsi la guerra tra loro, a testimonianza che questo sistema di Governo offre dei vantaggi indubbi anche in virtù del fatto che, dovendo i governi rendere conto del loro operato e delle loro scelte ai rispettivi popoli e che questi sono tendenzialmente propensi a evitare guerre che non ritengano ormai ineludibili per tutelare la loro sicurezza e la loro libertà, essi sono inclini a entrare in guerra solo quando ritengono che l’evitarla potrebbe provocare in tempi più o meno brevi più morti e più svantaggi, sotto il profilo umano, economico e geopolitico, rispetto all’evitare di affrontarle. Non si tratta di differenze da poco e sebbene anche in Occidente a molti purtroppo sembrino ormai trascurabili o marginali ogni Paese autenticamente democratico, se vuole davvero evitare pericolose derive autoritarie, dovrebbe fare in modo che i propri cittadini ne siano sempre ben informati e consapevoli, soprattutto nelle fasi storiche più delicate e drammatiche, quando per diverse ragioni le democrazie sembrano vacillare sotto l’attacco di una guerra ibrida sempre più pericolosa e di movimenti populisti che al loro interno sembrano volerla assecondare.

Aggiornato il 23 maggio 2025 alle ore 12:26