La delocalizzazione del lavoro e gli effetti di una globalizzazione indiscriminata

Per comprendere l’attuale contesto economico e geopolitico mondiale non si può non prendere atto di come per decenni l’occidente abbia praticato una disinvolta politica libero-scambista verso tutti gli altri Paesi del mondo, inclusi regimi totalitari come la Russia e la Cina. Questa strategia ha alimentato un processo di globalizzazione indiscriminato e l’illusione che un liberoscambismo su scala globale avrebbe portato benefici diffusi, migliorando le condizioni di vita, stimolando la modernizzazione e, con essa, favorendo una progressiva democratizzazione dei regimi autoritari. Il commercio come motore della pace e del progresso: questa è stata la grande narrazione, capace di proiettare nel futuro una speranza di armonia fondata sul benessere. Ancora oggi, chi contesta pregiudizialmente la legittimità di qualsiasi forma di protezionismo, sembra avvallare ancora con fiducia questa narrativa.

In realtà, un progresso in effetti c’è stato e la globalizzazione ha davvero comportato tutta una serie di vantaggi sotto diversi profili, perché il liberoscambismo può essere in effetti un fattore di sviluppo, di democratizzazione e di modernizzazione quando avviene secondo regole eque e condivise; ma quando la concorrenza è sleale, quando i lavoratori di una dittatura sono privi di sostanziali diritti sindacali e politici, quando tale dittatura può produrre anche per questo merci a costi più bassi, tanto da indurre molte aziende di quei Paesi dove tali diritti sono presenti a delocalizzare la propria produzione proprio dove essi sono assenti, o dove non ci sono tutele per preservare l’ambiente, siamo di fronte a un stratagemma sistematico per bypassare quelle stesse regole democratiche che l’occidente si è dato: delocalizzando la propria produzione corre infatti il rischio anche di delocalizzare la propria indifferenza o infedeltà a quelli stessi principi democratici su cui ha costruito la propria civiltà politica, nell’avventata convinzione che questa potesse essere garantita dalla propria efficienza economica.

Ma tale visione si è rivelata un’incauta illusione. I regimi autoritari non si sono aperti alla democrazia: hanno sfruttato l’integrazione globale per rafforzarsi, consolidare il controllo interno, accrescere il proprio potere geopolitico e militare. L’occidente, accecato dalla fiducia nella razionalità economica della “mano invisibile” in un mercato globale, sembra aver rimosso le implicazioni politiche delle proprie scelte. Mentre deindustrializzava, delocalizzava, si rendeva dipendente da energie, risorse e tecnologie controllate da altri, spesso Paesi autocratici quando non vere e proprie dittature, credendo di esportare valori universali. In realtà stava solo trasferendo vulnerabilità e moltiplicando illusioni destinate ad avere effetti autodistruttivi.

Negli ultimi 30 anni, la delocalizzazione delle produzioni occidentali verso i Paesi asiatici ha ridisegnato il panorama economico globale, portando con sé profonde implicazioni per le condizioni di lavoro in queste regioni. Spinte dalla ricerca di costi più bassi e normative meno stringenti, le aziende occidentali hanno trasferito settori come il tessile, l’elettronica e l’automotive in Paesi come Cina, India, Vietnam, Bangladesh e Cambogia. Questo fenomeno, pur generando opportunità economiche, ha sollevato interrogativi etici sulle condizioni di lavoro, spesso caratterizzate da sfruttamento e mancanza di diritti. Analizzando il tema attraverso le idee di Adam Smith e David Ricardo, due pilastri dell’economia classica, possiamo valutare se tali pratiche rappresentino una forma di concorrenza sleale, esplorando al contempo il loro pensiero su mercato, competizione e giustizia economica.

A partire dagli anni Novanta, la globalizzazione e la liberalizzazione del commercio hanno reso l’Asia una destinazione privilegiata per le produzioni occidentali. La Cina, con i suoi salari minimi, la manodopera abbondante e le infrastrutture in espansione, si è affermata come la “fabbrica del mondo”. Tuttavia, l’aumento dei salari cinesi ha spinto tante multinazionali a guardare altrove, verso Paesi come Vietnam, Indonesia e Bangladesh, dove i costi restano competitivi. Uno studio del 2012 ha rilevato che un terzo delle imprese manifatturiere cinesi, incluse quelle straniere, ha considerato di delocalizzare in queste regioni a causa di salari crescenti e calo delle esportazioni. Ma questo spostamento ha spesso trasferito anche pratiche lavorative problematiche, con condizioni che richiamano alla memoria le critiche di Smith e Ricardo a qualsiasi sistema che distorca una competizione equa.

Le condizioni di lavoro nei Paesi asiatici destinatari della delocalizzazione presentano spesso criticità preoccupanti. In Bangladesh, i lavoratori tessili, prevalentemente donne, guadagnano circa 62 euro al mese, lavorando fino a 14 ore al giorno, sei giorni su sette. In Cina, presso aziende come Temu, si riportano salari di 3 dollari l’ora per turni di 12 ore. In India, il lavoro minorile è diffuso, con 5,8 milioni di bambini impiegati in settori come il tessile e l’edilizia, spesso in condizioni di sfruttamento. La mancanza di sicurezza sul lavoro è un’altra piaga: il crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013, che ha causato oltre 1.100 morti, ha messo in luce la precarietà delle fabbriche tessili, prive di standard adeguati. Incidenti simili si sono verificati in Cambogia, dove il collasso di una fabbrica di scarpe ha rivelato l’assenza di regolamentazioni efficaci.

L’inquinamento industriale, come la Asian Brown Cloud causata da emissioni tossiche, aggrava i rischi per la salute dei lavoratori, con milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi smaltiti illegalmente in Cina e India. Lo sfruttamento è endemico: in Bangladesh, bambini di 12 anni o meno lavorano in fabbriche tessili con apprendistati non retribuiti che possono durare anni, e in Asia 155 milioni di bambini tra i 5 e i 17 anni sono coinvolti in lavoro minorile. La deregolamentazione del lavoro completa il quadro: i sindacati sono deboli o inesistenti e i lavoratori non hanno diritto a negoziare condizioni migliori. In Cina, le sommosse operaie alla Foxconn nel 2012 hanno evidenziato tensioni dovute a orari estenuanti e salari inadeguati, spingendo alcune aziende a spostarsi in Paesi come il Vietnam, dove le proteste sono meno frequenti.

Ma che opinione si sarebbero fatti di questo scenario economico e sociale i fondatori del liberismo economico? Adam Smith, l’ideatore della geniale metafora della “mano invisibile” e del “laissez-faire, ne La ricchezza delle nazioni (1776) dipinge il mercato libero come un meccanismo capace di generare benessere attraverso la competizione tra individui mossi dal proprio interesse. Ma non è cieco di fronte alle sue ombre. Egli denuncia i monopoli e le collusioni, osservando che i mercanti spesso si accordano per fissare prezzi o salari, soffocando la concorrenza e danneggiando i consumatori. Pur sostenitore del laissez-faire, Smith riconosce che lo Stato deve intervenire per garantire un mercato equo. Sul lavoro, la sua critica allo schiavismo è illuminante: il lavoro libero, sostiene, è più produttivo di quello servile, poiché i lavoratori liberi sono motivati dall’interesse personale, mentre gli schiavi, privi di incentivi, lavorano solo sotto coercizione. Lo schiavismo, per Smith, distorce il mercato del lavoro, creando vantaggi artificiali per chi lo utilizza, che può offrire beni a prezzi più bassi ma a scapito dell’efficienza e della giustizia.

Ora, le condizioni di lavoro in Asia, con salari al di sotto della sussistenza, orari disumani e lavoro minorile, richiamano questa critica. Per Smith, tali pratiche rappresentano una concorrenza sleale, poiché i produttori occidentali che delocalizzano sfruttano la coercizione implicita di lavoratori privi di alternative, violando il principio di una competizione basata su efficienza e innovazione. Probabilmente, oggi egli sarebbe favorevole a normative internazionali atte a garantire standard minimi e condivisi di tutela del lavoro, preservando così l’azione della “mano invisibile” del mercato nel contesto di regole condivise.

Quasi mezzo secolo dopo Smith, David Ricardo, nei Principi di economia politica e dell’imposta (1817), adotta una prospettiva più macroeconomica, concentrandosi sul commercio internazionale e la distribuzione della ricchezza. Con la teoria del vantaggio comparato, promuove il libero scambio come strumento per massimizzare l’efficienza globale, vedendo nei bassi costi del lavoro un vantaggio naturale per alcuni Paesi. Ma anche il suo modello presuppone lavoratori liberi di negoziare e mercati trasparenti. Le pratiche di sfruttamento in Asia, come il lavoro minorile o la soppressione dei diritti sindacali, violano queste premesse, creando un vantaggio comparatoartificiale” basato sulla coercizione. Per Ricardo, politiche che distorcono la competizione, come il protezionismo, sono sleali; allo stesso modo, l’assenza di normative sul lavoro che permettano uno sfruttamento sregolato potrebbe nella sua prospettica teorica alterare la competizione globale. Le produzioni delocalizzate che si avvantaggiano di tali condizioni minano infatti l’equità del commercio internazionale, poiché i prezzi bassi non riflettono un vero vantaggio economico, ma un abuso di potere. Sebbene Ricardo non approfondisca gli aspetti morali come Smith, la sua enfasi sull’efficienza e sulla libertà di mercato suggerisce che considererebbe tali pratiche una violazione delle regole di una competizione equa e leale.

Entrambi sembrano condividere l’idea che la concorrenza debba basarsi su regole che garantiscano libertà e trasparenza. Le condizioni di lavoro in molti Paesi asiatici, caratterizzate da sfruttamento e mancanza di diritti, violano queste regole, configurandosi come una forma di concorrenza sleale. Per Smith, il problema risiede nella negazione della libertà individuale e nell’inefficienza di un sistema che sfrutta indiscriminatamente i lavoratori; per Ricardo, nell’alterazione del vantaggio comparato attraverso pratiche che non riflettono vere differenze economiche ma abusi strutturali. Le loro idee si estendono anche a pratiche come lo schiavismo, che Smith condanna per la sua inefficienza e immoralità e Ricardo implicitamente disapprova in quanto ostacolo alla competizione equa nel commercio globale. In un mercato ideale, i lavoratori dovrebbero infatti essere liberi di negoziare e i produttori non dovrebbero poter sfruttare vantaggi derivanti da coercizione, e ciò per motivi simili a quelli per cui devono essere rifiutate in linea generale le coercizioni imposte dallo Stato volte a limitare il libero scambio.

La delocalizzazione in Asia ha generato benefici, come la creazione di posti di lavoro e l’aumento del reddito pro capite in alcuni Paesi, ma ha anche perpetuato un modello di competizione basato sullo sfruttamento indiscriminato. Gli scandali legati a condizioni disumane hanno spinto organizzazioni come l’Organizzazione internazionale del lavoro e l’Unione europea a promuovere standard di lavoro dignitoso, mentre il fenomeno del reshoring, accelerato dalla pandemia e da crescenti costi in Asia, suggerisce un ripensamento delle strategie di delocalizzazione.

Le intuizioni di Smith e Ricardo ci invitano ancora oggi a riflettere, anche all’interno di una prospettiva liberale e liberista, su come bilanciare i vantaggi della globalizzazione con la necessità di proteggere i diritti dei lavoratori e più in generale quello dei cittadini dei Paesi che vi sono coinvolti. In un mondo multipolare, dove l’Asia gioca un ruolo crescente, e forse ormai preponderante, la sfida è costruire un sistema economico che promuova prosperità senza sacrificare la dignità umana, garantendo che la competizione resti un motore di progresso e non una fonte di concorrenza sleale a prevalente vantaggio di autocrazie o dittature che adottano politiche neo-imperiali e che mirano a destabilizzare i Paesi democratici con una guerra ibrida sempre più incalzante e insidiosa.

Aggiornato il 20 maggio 2025 alle ore 10:22