Il disastro di un certo sindacalismo italiano

Sono le settimane della Quaresima del sindacalismo italiano. Si sono aperte con il primo di maggio e celebreranno la loro personale Pasqua in occasione dei referendum dell’8-9 di giugno. In questi giorni si critica tutto, il governo oppressore, le opposizioni non all’altezza che dovrebbero fare la rivoluzione secondo alcuni, il capitalismo cattivo, gli imprenditori che si approfittano del capitalismo cattivo per non pagare abbastanza i dipendenti. Chi pare esente dalle critiche (e dall’autocritica, in particolar modo) sono i principali promotori di questi venti di sommossa operaia: i sindacati. E lo si dica esulando da un vezzo spesso usuale di una certa concezione del pensiero liberale: il sindacalismo non è un nemico del liberalismo.

Winston Churchill, la cui figura riesce nell’ardua impresa di suscitare unanimità di sentimenti tra le millemila sfaccettature dei liberali italiani, era un grande sostenitore del sindacalismo come principio. Si scontrò varie volte con essi, ma fu promotore di varie leggi che li favorirono, avendo molto a cuore i temi del lavoro povero e della contrattazione collettiva. Il problema non è, dunque, il sindacalismo di per sé, quanto il sindacalismo italiano, vicino parente di assistenzialismo e corporativismo.

La testa principale del cerbero sindacale italiano è la Cgil, promotrice in pompa magna dei quattro quesiti sul lavoro. Tanto si è scritto nel merito e nel metodo della questione, esperti e accademici sono pressoché unanimi nel valutare la sostanziale iniquità delle riforme proposte. Non si tornerà, pertanto, sull’argomento, se non per far notare un particolare che agli occhi di molti è passato inosservato. Lo fa notare Massimo Gibelli, ex portavoce della Cgil, brutalmente silurato da Landini, in un’intervista a Il Riformista. Ciò che sottolinea è che, qualora vincessero i Sì (con tanto di quorum, si intende), verrebbero meno le limitazioni del Jobs Act ai licenziamenti da parte di partiti e sindacati. Insomma, per i sindacati non varrebbero le regole proposte dai sindacati, così, en passant, visto che si accennava al corporativismo.

Lo schema è sempre quello di orwelliana memoria in questi contesti: si è tutti uguali, ma c’è qualcuno più uguale di altri. Ne è l’esempio vivente proprio il signor Gibelli, storico portavoce della Cgil, per 40 anni a servizio di quella causa, è stato scaricato in seguito ad un’operazione di riorganizzazione del segretario Landini. Gibelli è stato licenziato utilizzando il Jobs Act. Ma, per di più, lo scenario assume connotati ancora più fantozziani se si ipotizzano le tesi di un ipotetico contenzioso legale tra il sindacato e il suo ex portavoce. Qualora Gibelli volesse appellarsi al fatto di dover essere tutelato dal regime in vigore prima della sua assunzione (quindi non il Jobs Act), si ritroverebbe paradossalmente meno tutelato. Le tutele per licenziamento illegittimo pre-Jobs Act erano infatti molto minori rispetto alle attuali, mentre la tanto agognata riforma del mercato del lavoro introduce le “organizzazioni di tendenza”, come il sindacato, tra quelle meritevoli delle sue tutele (considerate esigue dal sindacato stesso). Se tutto ciò estremamente cervellotico, non è necessariamente per i limiti divulgativi di chi vi scrive. La questione è che, appunto, si tratta di materie dall’elevato tecnicismo che difficilmente potranno essere comprese dalla larga maggioranza dell’elettorato.

D’altronde, è questa l’attuale strategia del sindacato: proporre agli “ultimi” (la cui identificazione sociale ha dei connotati sfuggevoli ai più) quattro quesiti verosimilmente a loro incomprensibili, assicurandogli che ne gioveranno. E questo è tutto da discutere. Se la soluzione per i più deboli sia un mercato del lavoro meno flessibile, in cui i salvagenti dello Stato sociale si trasformano in zavorre, è quantomeno discutibile. Un mercato del lavoro dinamico supportato da misure di tutela transitorie, per chi temporaneamente − e da ribadire, temporaneamente − soffre le conseguenze della suddetta dinamicità, non punisce gli ultimi. Anzi, riattiva un ascensore sociale che in Italia è da tempo fuori servizio. Il rischio di far di tutta un’erba un fascio è ovviamente dietro l’angolo.

Se genericamente la qualità comparata della nostra organizzazione sindacale è lì da vedere, non tutti si attestano sulle posizioni massimaliste di Cgil e Uil.

La Cisl, ad esempio, non sarà la soluzione a tutti i mali del mercato del lavoro, ma ha tenuto una linea più votata al raziocinio. Ha espresso scetticismo in merito ai quesiti in esame in giugno. Nel frattempo, sommessamente ha sponsorizzato l’approvazione della proposta di partecipazione dei lavoratori agli utili aziendali approvata molto di recente in Senato. Qualcun altro ha scelto una via meno silenziosa, fatta di demagogia. Scegliendo di sbandierare l’articolo 18 e lo Statuto dei Lavoratori come se fossero la pietra filosofale per i lavoratori italiani. Manifestando giornalmente in favore del salario minimo, mentre scientemente ha firmato i contratti a 5 euro lordi l’ora per le guardie giurate. Inserendo il tutto nella cosiddetta “internazionalità”, che annacqua le lotte dei lavoratori con quelle ambientaliste, no global e ProPal.

Aggiornato il 19 maggio 2025 alle ore 10:42