
Doveva essere un pomeriggio come tanti, fatto di studio, confronto e vita universitaria. E invece, al Campus Luigi Einaudi di Torino, si è trasformato in uno di quei giorni che lasciano il segno. Un incontro organizzato dall’Unione dei Giovani Ebrei d’Italia, dedicato al tema dell’antisemitismo, è stato brutalmente interrotto da un gruppo di manifestanti pro-Palestina. Un assalto che ha costretto gli organizzatori ad annullare l’evento e ha acceso i riflettori su un clima sempre più intollerante che si respira all’interno delle università italiane. L’episodio è avvenuto nel primo pomeriggio, quando circa 150 attivisti hanno fatto irruzione negli spazi universitari con l’intento dichiarato di impedire lo svolgimento dell’incontro. Al grido di slogan contro Israele, accusato di ogni male, i manifestanti hanno messo in scena un’azione intimidatoria che poco aveva a che vedere con il diritto di protesta. Urla, cori, minacce e spintoni hanno trasformato l’aula in un teatro di ostilità. L’intervento delle forze dell’ordine ha evitato il peggio, ma la conferenza è stata comunque sospesa. E con essa, sospeso anche il diritto alla libertà di espressione.
Non si tratta di un episodio isolato. Negli ultimi mesi, diverse città italiane hanno assistito a scene simili, tutte riconducibili agli stessi ambienti e agli stessi metodi. A Milano, un dibattito sull’antisemitismo è stato interrotto con cori offensivi e insulti agli organizzatori. A Roma, l’allestimento di uno stand informativo da parte di un’associazione ebraica è stato contestato e ostacolato da studenti legati ai collettivi pro-Palestina. A Bologna, l’ingresso di un’aula destinata a un seminario sul sionismo è stato imbrattato. A Pisa, alcuni attivisti hanno bloccato la lezione di un docente israeliano, accusandolo di rappresentare uno Stato criminale. E poi ancora episodi a Firenze, a Napoli, a Padova: ovunque lo stesso copione, la stessa ostilità, la stessa volontà di silenziare chi non si adegua alla narrazione dominante.
Non c’è niente di nuovo, né di progressista. C’è solo la vecchia violenza ideologica mascherata da militanza studentesca. Gli stessi metodi, la stessa arroganza, la stessa pulsione autoritaria. Questi sedicenti attivisti non sono altro che l’ennesima reincarnazione della militanza comunista che ha infestato le università nel Novecento. Come allora, anche oggi non cercano il confronto ma la cancellazione dell’avversario. Non cercano la verità, ma l’imposizione della propria narrativa. Non discutono, urlano. Non argomentano, minacciano.
E come i comunisti del passato (e del presente), danno voce alla propaganda dei peggiori nemici della civiltà. In questo caso, Hamas. I cori, gli slogan, le scritte che accompagnano ogni loro “protesta” non sono altro che l’eco della propaganda dei terroristi islamisti. Di quelli che non vogliono la pace, ma hanno un solo obiettivo: eliminare Israele, cacciare gli ebrei. E loro, questi presunti studenti “impegnati”, portano quella propaganda dentro le nostre università, la ripetono, la legittimano, la impongono con la forza. Si dicono per la pace, ma giustificano chi l’ha calpestata con le armi. Si dicono contro l’odio, ma ne sono portatori. Si dicono difensori dei diritti, ma negano il diritto più elementare: quello a parlare.
Dentro questo clima tossico, l’antisemitismo trova nuovo spazio per attecchire. Non si presenta con il volto che conosciamo dai libri di storia, ma si insinua dietro il linguaggio dell’attivismo, si veste di buone intenzioni, si mimetizza nelle battaglie per i diritti. L’ebreo non viene più attaccato in quanto tale, ma in quanto “sionista”. Un’etichetta usata per delegittimare, per colpevolizzare, per zittire. Ma il risultato è lo stesso. Si colpisce una minoranza, la si isola, la si priva della possibilità di parola. Questo è antisemitismo. Che lo si voglia ammettere o no. E non serve legittimare in alcun modo questi atteggiamenti parlando della causa palestinese. Nessuna causa, per quanto si voglia nobilitare, può giustificare l’intimidazione, la censura, la demonizzazione dell’altro. Se il prezzo di una causa è la soppressione della libertà altrui, quella non è più una causa giusta. È fanatismo. È intolleranza. È odio. Ciò che preoccupa non è solo la violenza degli episodi, ma l’indifferenza con cui vengono accolti. Troppo spesso si tende a minimizzare, a giustificare, a spiegare. Troppo spesso si sceglie il silenzio. E il silenzio, lo abbiamo imparato, è il terreno su cui l’odio prospera. Oggi non possiamo permettercelo. Non dopo quello che la storia ci ha insegnato. Non dopo aver giurato che certi errori non si sarebbero più ripetuti.
L’Italia ha una responsabilità morale. Deve proteggere le sue università dal ritorno di ideologie intolleranti e discriminatorie. Deve garantire che ogni cittadino, qualunque sia la sua identità, possa parlare, studiare, confrontarsi senza paura. Deve ricordare che la libertà non è mai scontata. E che quando si comincia a zittire qualcuno, presto o tardi verrà il turno di tutti. Non possiamo chiudere gli occhi. Non possiamo accettare che l’odio si faccia spazio dietro la maschera dell’impegno politico. Non possiamo permettere che il pregiudizio torni a imporsi nel luogo dove dovremmo imparare a superarlo. Perché quando l’antisemitismo rientra in università, non è solo un problema della comunità ebraica. È un fallimento per tutti. Un fallimento della cultura, della libertà, della civiltà. E chi oggi finge di non vedere, domani dovrà spiegare perché ha scelto il silenzio.
Aggiornato il 16 maggio 2025 alle ore 11:02