
Il 9 maggio è la Festa dell’Europa. Ma in giro non si sente nulla. Nessuno canta, nessuno si commuove. È una celebrazione muta, confinata nei palazzi, ignorata nelle piazze. Un rito freddo, più vicino a un obbligo amministrativo che a una festa popolare. Eppure l’Europa dovrebbe essere una parola che accende qualcosa. Dovrebbe evocare radici, cultura, lotte comuni. Dovrebbe raccontare l’identità di un continente che, pur non essendo mai stato uno Stato, ha saputo riconoscersi in una civiltà condivisa. Il problema è che l’Europa ha smesso di raccontare se stessa. Ha dimenticato la propria grandezza. È stata impero, e non solo per il dominio militare, ma per la capacità di costruire leggi, città, vie di comunicazione, un’idea di cittadinanza che ancora oggi ci tiene insieme. È stata Cristianesimo, non solo come religione, ma come visione dell’uomo: libero, responsabile, portatore di dignità. È stata anche pensiero libero, filosofia, riflessione politica: quella libertà che John Locke concepiva come esercizio della ragione e scelta del bene, non semplice desiderio individuale. Ma l’Europa ha sepolto tutto questo sotto parole senz’anima: inclusività, transizione, resilienza. Slogan astratti, spesso usati per negare piuttosto che affermare. Un lessico che rifiuta il passato e cerca di riscrivere tutto da zero.
Solo che il passato non si cancella. È scritto nei monumenti, nei libri, nel sangue versato per difendere ciò che siamo. Nei Campi Catalaunici, dove si fermò Attila. A Costantinopoli, contro le flotte arabe. A Poitiers, nella Reconquista spagnola, a Las Navas de Tolosa, a Lepanto, a Vienna. È la storia di un continente che ha resistito, che ha lottato per la sua libertà, per la sua fede, per la sua identità. Questa Europa non ha mai avuto bisogno di negare le patrie per unirle. Ha saputo armonizzare le differenze, non cancellarle. Ha fatto delle cattedrali e dei campanili un tessuto comune. È stata una civiltà, non un protocollo. Per questo serve un patriottismo europeo vero. Non costruito nei corridoi delle istituzioni, ma nato dal basso, dalla memoria, dalla terra. Un patriottismo che non ha paura delle radici, che sa dire “noi” senza bisogno di escludere nessuno, ma senza accettare che tutto venga svuotato e omologato. Non è troppo tardi. L’Europa può ancora riscoprirsi. Ma deve tornare a credere in ciò che l’ha resa grande: la verità, la libertà, la responsabilità, la storia. Se saprà riconnettersi a ciò che ha nel profondo, potrà tornare a brillare. Non per nostalgia, ma per vocazione. E il 9 maggio, allora, potrà finalmente diventare una festa vera. Non solo di un’istituzione. Ma di un destino condiviso.
Aggiornato il 12 maggio 2025 alle ore 12:12