
La confusione che attraversa la politica contemporanea non rappresenta un semplice disordine temporaneo, ma l’espressione profonda di una contraddizione che si è ormai fatta struttura del mondo. Assistiamo a un paradosso che si dispiega davanti ai nostri occhi con tragica evidenza, mentre le fondamenta stesse del pensiero politico vacillano sotto il peso di un’epoca che ha dimenticato le proprie radici ontologiche. Da un lato, i partiti populisti di destra che avanzano inesorabilmente nelle democrazie occidentali si presentano come i difensori della tradizione, i custodi di un ordine antico minacciato dall’apertura globale e dall’erosione delle identità collettive. Si ergono a interpreti di un passato idealizzato, di un’età dell’oro in cui le comunità erano coese e i valori indiscutibili. Eppure, il loro stesso populismo è la prova più lampante che quella tradizione è già stata irrimediabilmente spezzata: essi parlano a masse disgregate, non più a comunità organiche. Il popolo a cui si rivolgono non è il corpo vivente della tradizione, ma un aggregato di solitudini sospinte dall’inquietudine, dall’insicurezza, dal risentimento – un insieme di individui già atomizzati dalla stessa modernità che pretendono di combattere.
La loro nostalgia è un sentimento che nasce dalla perdita, non dalla conservazione; è il sintomo di un’assenza, non la celebrazione di una presenza. Dall’altro lato, i partiti di sinistra, che dovrebbero ereditare l’ispirazione cattolica e socialista, cioè l’idea di una comunità universale fondata sulla giustizia e sulla solidarietà, sono diventati i sacerdoti di una modernità che ha smarrito il proprio fondamento. La loro predicazione sui diritti e sull’inclusione galleggia nel vuoto, priva di quel terreno solido che solo una verità forte potrebbe garantire. Hanno smesso di credere nella legge eterna che dava senso a quei valori, sostituendola con un relativismo che rende ogni principio negoziabile, ogni valore intercambiabile. I loro discorsi si levano come canti nel deserto, privi di quella auctoritas che in passato li rendeva parola credibile. La loro giustizia è diventata un simulacro, un idolo vuoto che si venera per abitudine. In questa nebbia ontologica, i ruoli politici si confondono in modo inquietante: la destra appare rivoluzionaria proprio perché si finge conservatrice, mentre la sinistra appare tradizionale proprio nel suo sistematico tradimento della tradizione. È come se entrambe recitassero parti in una commedia di cui hanno dimenticato il significato profondo. La destra evoca fantasmi di un passato che non comprende più, la sinistra insegue fantasie di un futuro che non sa più giustificare. Nessuno dei due poli riconosce che l’età in cui i valori potevano fondare autenticamente l’ordine del mondo è tramontata, sostituita da un’epoca in cui la tecnica ha divorato ogni altra forma di verità. I populismi contemporanei emergono come il grido disperato di chi si oppone al destino della tecnica globale, al suo potere di dissolvere ogni identità stabile, ogni appartenenza, ogni certezza.
Ma lo fanno paradossalmente con gli strumenti stessi della tecnica: il controllo algoritmico dei media, la semplificazione estrema dei messaggi, la mobilitazione istantanea delle emozioni collettive attraverso piattaforme digitali. Combattono la tecnica con la tecnica, ignari che proprio questo li rende complici di ciò che pretendono di combattere. E la sinistra, che dovrebbe opporsi alla disgregazione sociale prodotta dal capitalismo tecnico, finisce per celebrarla nel nome della libertà individuale e dell’autodeterminazione, senza vedere che questa libertà è stata già assorbita e neutralizzata dal processo tecnico che la rende funzionale ai propri fini immanenti. Carl Schmitt aveva colto il cuore di questa trasformazione epocale quando scriveva che “tutti i concetti pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”. La politica contemporanea è dunque una teologia svuotata di Dio: la destra che finge di venerare dèi in cui non crede più veramente, e la sinistra che proclama la salvezza terrena senza più un fondamento che la renda pensabile. Questa secolarizzazione incompiuta genera mostri concettuali: valori che pretendono di essere assoluti ma che si sanno relativi, leggi che vorrebbero essere eterne ma che si riconoscono contingenti. La confusione politica che pervade le democrazie contemporanee nasce precisamente da questa incapacità di pensare il senso ultimo del proprio agire.
La destra difende la tradizione senza più credervi davvero, come chi custodisce un tempio ormai vuoto; la sinistra difende l’innovazione e il progresso senza più sapere da dove essi traggano il proprio diritto e la propria direzione. È come un grande fiume che scorre ancora impetuoso, ma il cui letto si è prosciugato: l’acqua corre, ma non ha più direzione, e presto evaporerà nel nulla della storia. La verità più profonda, che nessuna fazione politica osa confessare, è che entrambi i fronti sono ormai interni alla logica che domina silenziosamente il nostro tempo: la volontà di potenza che si realizza nella tecnica planetaria. Questa volontà ha colonizzato tanto il conservatorismo quanto il progressismo, rendendoli varianti di uno stesso nichilismo pratico. Nessuno osa più nominare ciò che sta oltre questa logica, ciò che potrebbe fondare un’autentica alternativa all’orizzonte tecnico in cui siamo immersi. E finché questa dimenticanza continuerà, il disordine politico crescerà, e le forze in campo continueranno a rincorrersi l’una l’altra in un gioco di specchi che confonde i popoli e li priva della possibilità di riconoscere il proprio destino autentico. Si dice ubi maior, minor cessat: e la tecnica è oggi quel maior che ha fatto tacere ogni altro fondamento, ogni altra verità. La politica, credendosi ancora sovrana, si agita come un fantasma che non sa di essere morto, come un attore che recita su un palcoscenico ormai disertato dal pubblico. E intanto le nazioni, i popoli, le culture assistono a questo teatro di ombre, incapaci di vedere che la posta in gioco non è il ritorno nostalgico a un passato che non può tornare, né l’accelerazione verso un futuro senza direzione, ma la riscoperta di un destino che precede e fonda ogni tecnica, ogni potere, ogni costruzione umana.
Ciò che manca al discorso politico contemporaneo è la capacità di confrontarsi con la questione dell’essere, con la domanda sul fondamento ultimo di ogni valore, di ogni diritto, di ogni progetto collettivo. Finché questo confronto sarà evitato, la confusione non potrà che aumentare. Anzi, crescerà inesorabilmente, perché il nulla, quando si fa regola del pensiero e dell’azione, non si arresta mai da solo. Divora progressivamente ogni residuo di senso, ogni isola di resistenza, fino a quando non resta che il deserto dell’indifferenza, dove tutte le posizioni si equivalgono e nessuna verità può più essere affermata. È urgente, quindi, che il pensiero politico ritrovi il coraggio di interrogarsi sui propri fondamenti, sul proprio rapporto con la verità dell’essere. Solo così potrà superare la sua attuale impotenza e ritrovare quella capacità di orientare autenticamente il destino collettivo che oggi sembra irrimediabilmente perduta, sommersa dal frastuono di una lotta politica tanto accesa quanto priva di sostanza ontologica.
Aggiornato il 07 maggio 2025 alle ore 16:13