
“Figlioli miei, europeisti immaginari”. Potremmo raffigurare in tal modo, parafrasando il titolo di un noto pamphlet degli anni Settanta, i protagonisti delle recenti manifestazioni svoltesi in Italia contro il progetto di Difesa comune degli Stati dell’Unione lanciato da Ursula von der Leyen. Così come l’autrice di quel piccolo ma efficace libro, Vittoria Ronchey, ricordava ai “compagni rivoluzionari” dell’epoca che gli slogan di cui facevano largo uso nulla avevano a che fare con il marxismo, altrettanto si può dire oggi, fatte le dovute applicazioni, al contraddittorio e variegato mondo del pacifismo italiano. Essi continuano a fuggire dalla realtà effettuale, immaginando un universo irenico del tutto sconosciuto sul terreno storico. Ai presunti pacifisti vale la pena di ricordare che Luigi Einaudi – egli sì europeista e federalista senza se e senza ma – tenne all’Assemblea Costituente il 29 luglio 1947 un memorabile discorso in cui ricordava che “la scelta della protezione Atlantica non poteva che avere carattere transeunte”. Si trattava di una decisione necessaria oltreché indispensabile alla luce delle fragilità oggettive sia dell’Italia che degli altri Stati dell’Europa occidentale.
“Il Patto atlantico sia uno stimolo potente – disse il professore – per attivare un processo realistico di unità politica tra i Paesi del Vecchio continente con l’impegno di giungere a una Difesa comune”. Einaudi riprese l’argomento più volte anche nelle vesti di capo dello Stato. Infatti, il 1° marzo 1954 osservava che “nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Solo una svolta unitaria può farli durare”. Mentre egli scriveva tali considerazioni era forte il timore che la Ced (Comunità europea di Difesa, prevista dal Trattato firmato nel 1952 dai Paesi aderenti alla Ceca) potesse non decollare. Infatti, il 30 agosto 1954 arrivò la bocciatura da parte dell’Assemblea nazionale francese con 319 voti contrari e 264 a favore.
Fu così che l’Europa disse addio alle armi. In quei giorni, la sinistra comunista festeggiò in molte città europee per “la vittoria del popolo e della pace”. Einaudi fortemente deluso annoterà in quelle ore che “non c’è libertà senza indipendenza. Se ci si rassegna alla perdita dell’indipendenza, ci si rassegna alla perdita della libertà e si diventa servi”. E più avanti, paragonando la condizione dell’Europa a quella dell’Italia del Quattrocento, ricorderà che “le esitazioni e le discordie degli Stati italiani alla fine del Quattrocento costarono la perdita dell’indipendenza lungo tre secoli… il problema è fra l’esistere uniti o scomparire”. Nel momento in cui un presidente degli Stati Uniti dichiara di avere quale obiettivo prioritario il disimpegno strategico del proprio Paese dal fronte europeo, le riflessioni di Luigi Einaudi assumono un carattere profetico. Gli europeisti immaginari di casa nostra farebbero bene a riflettere su quelle “prediche inutili”.
Aggiornato il 15 aprile 2025 alle ore 09:26