
La recente decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Echr) nel caso Sharafane contro Danimarca ha sollevato serie preoccupazioni sulla deriva centralizzatrice delle istituzioni sovranazionali. Affermando il “diritto al ritorno” per gli stranieri espulsi, la Corte ha impedito alla Danimarca di applicare una politica migratoria che prevedeva l’espulsione permanente di immigrati giudicati colpevoli di crimini più o meno gravi.
Secondo quanto riportato dall’European Centre for Law & Justice (Eclj) , tale nuova giurisprudenza non sarebbe solo un attacco all’autonomia degli stati membri dell’Ue nella gestione delle proprie frontiere, ma rappresenta un ulteriore passo verso una pericolosa erosione della sovranità nazionale a favore di un centralismo sempre più inefficiente, antidemocratico e antiliberale.
Secondo quanto riportato dall’Eclj, lo scorso 29 gennaio, la Danimarca aveva fatto appello ai magistrati della Grande Camera della Corte Europea, cioè il grado più alto della stessa, affinché il caso fosse nuovamente analizzato. Secondo il governo danese, la sentenza Sharafane “solleva questioni gravi e serie, in particolare riguardo al diritto sovrano dello Stato di controllare l’ingresso, la residenza e l’espulsione di cittadini non nazionali”, nonostante questo diritto sia “una questione di diritto internazionale consolidato”.
Tuttavia, il 17 marzo scorso, i giudici in questione hanno emesso la propria decisione e hanno respinto in maniera definitiva l’appello della Danimarca.
Tale decisione è indicativa di una tendenza sempre più invasiva da parte delle istituzioni sovranazionali nel ridefinire le politiche nazionali, anche in un ambito così delicato come quello della sicurezza e dell’immigrazione. Gli stati membri dell’Ue hanno già visto la loro capacità di regolamentare l’immigrazione fortemente limitata da direttive e regolamenti europei; ora, la giurisprudenza della Echr rischia di compromettere il diritto all’espulsione – uno strumento essenziale per il mantenimento dell’ordine pubblico – riducendolo a un mero formalismo giuridico.
Questa sentenza invia un segnale sbagliato, poiché implica che la criminalità non possa costituire un motivo grave e sufficiente per l’espulsione definitiva di un individuo. Questo pseudo-diritto è l’ennesimo passo del lungo processo di sminuimento di un principio che da sempre caratterizza la cultura occidentale, cioè il principio di responsabilità individuale.
Ci troviamo di fronte all’ennesima interpretazione estremamente ideologica dei diritti umani. Queste istituzioni sovranazionali non rendono conto a nessuno delle proprie decisioni. I giudici della Echr non sono eletti dai cittadini e le loro sentenze non possono essere soggette a referendum o a revisione democratica. Questo crea un sistema in cui il potere si accumula nelle mani di una élite burocratica e giuspositivista, che prende decisioni vincolanti senza alcuna forma di controllo.
La crescente centralizzazione delle politiche migratorie ed economiche è, ancora una volta, contraria al principio di sussidiarietà, che vorrebbe che le decisioni fossero prese al livello più vicino possibile ai cittadini. Al contrario, la giurisprudenza dell’Echr favorisce una gestione uniforme dell’immigrazione, ignorando le specificità nazionali e regionali, con risultati disastrosi in termini di integrazione e sicurezza.
Un esempio virtuoso, che i politici e magistrati europei dovrebbero maggiormente prendere in considerazione come modello alternativo e più funzionale, è probabilmente il modello svizzero, dove ogni cantone ha ampi margini di autonomia nella regolamentazione dell’immigrazione e nella concessione dei permessi di soggiorno.
Questo sistema consente una gestione flessibile e adattabile alle esigenze locali, favorendo non solo la mobilità per gli immigrati, ma persino per gli stessi svizzeri, oltre che a favorire un’imprenditorialità dinamica, e una sana competizione tra i diversi cantoni e le diverse municipalità. L’Ue, invece di accentrare ulteriormente il potere, dovrebbe ispirarsi a modelli di governo più decentralizzati ed efficienti.
Ogni stato membro dovrebbe avere il diritto e il dovere di stabilire criteri di selezione per l’accoglienza degli immigrati, favorendo coloro che meglio possono integrarsi nella società. Il criterio di selezione non dovrebbe basarsi esclusivamente su considerazioni ideologiche, ma anche su fattori culturali e valoriali. Tanto per fare un esempio, è doveroso dare priorità a quei migranti che fuggono da persecuzioni per la loro fede o per il loro pensiero, poiché è più probabile che condividano i principi fondamentali della società ospitante e che abbiano una maggiore predisposizione all’integrazione.
Un caso emblematico è quello dei cristiani perseguitati in India, che in queste settimane stanno subendo violenze sistematiche per la loro fede. Il silenzio delle istituzioni europee al riguardo è assordante. Le loro comunità vengono attaccate, le chiese bruciate, i fedeli minacciati e uccisi. Questi uomini e donne, vittime di un odio religioso inaccettabile, troverebbero in Europa non solo rifugio, ma un contesto culturale più affine, dove potrebbero ricostruire le loro vite in armonia con i valori di libertà e dignità umana. Le attuali politiche migratorie europee, paradossalmente, finiscono per penalizzare proprio coloro che avrebbero maggiori capacità di integrazione.
L’assenza di un disciplinamento giusto e ragionevole dell’immigrazione è non soltanto insostenibile, ma foriero di tensioni sociali che impediscono una vera integrazione.
Se l’Europa vuole davvero difendere i diritti umani, deve riscoprire il principio di sovranità e di sussidiarietà, restituendo agli stati membri il diritto di proteggere le proprie comunità.
Continuare su questa strada significa sacrificare la sicurezza e la coesione sociale in nome di un’ideologia astratta, che ignora la realtà e mette a rischio il futuro del continente.
Aggiornato il 28 marzo 2025 alle ore 12:24