Vespaiotene

L’ultimo vespaio suscitato dal discorso di Giorgia Meloni alla Camera per le citazioni del Manifesto di Ventotene, si presta a una serie di considerazioni, che vado a enumerare:

1) Come succede spesso il “Manifesto” è assai più citato che letto, e i di esso estimatori (di professione) non hanno l’accortezza di citare i passi interpretati (magari corredandoli con l’indicazione relativa come i versetti della Bibbia o i frammenti del Digesto). Per cui complicano il lavoro del lettore curioso che voglia approfondire e controllare. A pensar male la prassi sarebbe volontaria, con l’effetto (voluto) di ascrivere a Ernesto Rossi e ad Altiero Spinelli, le idee dell’interprete.

2) Le affermazioni del “Manifesto” citate dalla Meloni – e comunque oggetto della discussione, concernono idee che, all’epoca della redazione del “Manifesto” (1941) erano diffuse e dibattute, in particolare tra intellettuali e politici. Le ricordiamo: “La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria” e “nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente” (sulla democrazia).

E sul carattere dell’auspicata rivoluzione “La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista”. Sulla proprietà: “La proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita e tollerata solo in linea provvisoria quando non se ne possa proprio fare a meno. La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”. Sul rapporto tra popolo e partito dirigente: “Durante la crisi rivoluzionaria (il movimento, ndr) attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo Stato, e intorno a esso la nuova vera democrazia”. Tutte tali affermazioni, inequivocabili, corrispondono a convinzioni allora diffuse, ma che le vicende successive – e la stessa evoluzione di Rossi e Spinelli – hanno cambiato spesso radicalmente. Ernesto Rossi fu un benemerito sostenitore del liberismo contro i monopoli; Spinelli fu a favore del Piano Marshall e nel corso della sua carriera politica, pur sempre di sinistra, non risulta che avesse posizioni o prassi simili a quelle esposte nel “Manifesto” prima sintetizzate. Fa in particolare impressione il rapporto tra rivoluzionari e masse (sia movimenti politici che cittadini comuni). Quanto ai primi nel “Manifesto” si criticano i partiti (e loro dirigenti) democratici: che questi “Credono nella generazione spontanea degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla storia al popolo al proletariato o come altro chiamano il loro dio. Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere ritoccate solo in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente”.

Il popolo, nelle situazioni rivoluzionarie è disorientato: “Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro” e conseguentemente “i democratici si sentono smarrirti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare. Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi”. Anche i comunisti, col loro classismo “costituiscono nei momenti decisivi un elemento settario che indebolisce il tutto” per cui “una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo non in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo”. Invece il “partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione dalla schiera sempre crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell’organizzazione del partito solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita e costituiscano così la solida rete che dia consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti. Durante la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate”.

È evidente l’influenza del modello del partito rivoluzionario-totalitario e, soprattutto, l’insegnamento di Lenin. Il quale nel “Che fare?”, scriveva: “Il nostro compito pratico più urgente: creare un’organizzazione di rivoluzionari capace di garantire alla lotta politica l’energia, la fermezza e la continuità”. E affermava “che non potrà esservi un movimento rivoluzionario solido senza un’organizzazione stabile di dirigenti che ne assicuri la continuità che tale organizzazione deve essere composta principalmente di uomini i quali abbiano come professione l’attività rivoluzionaria”. È inutile poi ricordare il ruolo guida che, nel pensiero di Antonio Gramsci ha il partito rivoluzionario o la sua organizzazione tattico-insurrezionale (Curzio Malaparte). Giudizi in cui il consenso, la democrazia, la legittimità sono quasi sempre un impaccio, e comunque non costituiscono né una condizione né una preoccupazione. Secondo Malaparte alla tattica insurrezionale dei bolscevichi non servivano le masse, ma nuclei ristretti, esperti e organizzati.

Tutto il resto delle citazioni della Meloni (estratte dalle più numerose conferme esposte nel “Manifesto”) concernenti socialismo, proprietà (dei mezzi di produzione) più che proprietà in genere, sono state superate dall’attuale Unione europea, che sicuramente non è socialista, è contraria a ogni nazionalizzazione dei mezzi di produzione (e così via). Cos’è ancora vivo nel Manifesto di Ventotene, esaminandolo con un occhio realista? A mio avviso principalmente due cose: il giudizio che in un’epoca di potenze continentali, gli Stati nazionali sono superati non avendo una massa critica per competere con le superpotenze in essere o in fieri (oggi Usa, Cina, India, Russia e forse Brasile). È un buon argomento per costruire uno Stato federale europeo come quello auspicato dal “Manifesto”. La seconda: che Rossi e Spinelli non credevano a una “unione” che prescindesse dall’elemento decisivo perché unione ci sia: un potere sovraordinato ai singoli Stati, come scriveva il giovane Georg Wilhelm Friedrich Hegel sul Sacro Romano Impero (allora in via di estinzione), al quale mancava proprio quello. L’insistenza sul partito rivoluzionario e l’indifferenza verso il consenso e le procedure democratiche non è altro che la riproduzione nella prima metà del XX secolo della essenzialità per una sintesi politica di avere un centro unificatore supremo (Hegel). All’epoca del filosofo era il monarca assoluto, ai tempi di Rossi e Spinelli, era diventato il partito rivoluzionario che, esercitando la dittatura, costruiva un nuovo ordine. Al contrario dell’Unione europea attuale, la quale ha unificato molte cose, ma non il potere (decisivo e superiore) ai singoli Stati, ma si è limitata ad alcuni “rami bassi”. Anzi, in Italia è stato teorizzato il “vincolo esterno” che si presta a questa unificazione delle mezze misure. Dai tappi delle bottiglie in su. Cioè di ciò che non è (o è poco) politico. E, anche per ciò, il “Manifesto”, liberato da utopismo e condizionamenti d’epoca, può dirci ancora qualcosa.

Aggiornato il 25 marzo 2025 alle ore 17:40