
La vera discussione politica non dovrebbe riguardare le secche di Ventotene, un buon escamotage per Giorgia Meloni utile a sviare la discussione sulla posizione dell’Italia “ReArm” o “disarm” Europe. In effetti la premier poteva contestualizzare il Manifesto di Ventotene, dato che l’unica alternativa al nazifascismo era allora in Italia (sic) lo stalinismo. Lo era anche dal punto di vista culturale, dato che Benedetto Croce e altri liberali erano estromessi dalla discussione pubblica. Si pensi che i giovani Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Aldo Moro, Giulio Andreotti eccetera, scrivevano articoli terribili, anche sul quindicinale La difesa della razza. Ma erano giovani e senza accesso a culture liberali e democratiche (le leggi razziali del 1938 furono siglate da quasi il 100 per cento dei docenti italiani). Nei regimi attuali è anche peggio: Vladimir Putin prende voti grazie al controllo totale di corpi e menti dei cittadini russi.
Quindi occorre spostare la discussione a tempi più attuali, quando la posizione del Partito democratico sull’Ucraina (non parlo di Avs e Movimento 5 stelle, perduti nel deserto della logica e dell’interesse di parte) è paradossalmente più vicina a quella di Putin e Donald Trump che a quella di Bruxelles. Anche perché la balla dell’esercito europeo non ha senso: per realizzare un esercito europeo ci vorrebbero montagne di burocrazia (le mie fonti nell’esercito italiano parlano di situazioni orripilanti) e tempi biblici, oltre a un processo di integrazione politica che oggi non sembra attualizzabile. Interesserà capire alcuni passaggi dell’integralismo verbale ex comunista. Gli ultraottantenni coi quali parlo di politica recitano sure/mantra/rosari del genere “Ci vorrebbe Stalin”, oppure ripetono ciò che sentono in tivù, cioè: “è un gran casino”. Gli ottantenni però non vogliono l’abolizione della proprietà privata come chiedeva il gruppo di Ventotene, visto che tutti hanno almeno una casa, un gruzzolo, e sono conservatori anche se votano a sinistra. La rivoluzione morale in salsa Mani pulite o quella schleiniano-trotskista non è nelle loro agende. Ne sono felice.
Se non mi scandalizzo sugli errori giovanili di alcuni esponenti della sinistra storica, c’è molto da dire sui loro scritti e sulla loro direzione politica successiva. Per esempio, il comunismo storico si è fondato, così come il giacobinismo, sull’abolizione delle classi. Tutte, tranne una. Cosa che ho sempre pensato, dai tempi in cui vidi il film Il dottor Zivago. Ero poco più che bambino, e mi innamorai di Julie Christie. Non ricambiato. Là dove i partiti comunisti hanno preso il potere, dalla Russia di Lenin alla Cambogia di Pol Pot, da Cuba al Venezuela fino alla Cina attuale, chi comanda è l’apparato burocratico del Partito. Alla faccia di operai, contadini e salumieri o impiegati.
Ciò è avvenuto perché i totalitarismi nazifascisti e comunisti (che non erano integralisti come il postcomunismo) si sono fondati sul concetto di Avanguardia. Un concetto che con Friedrich Nietzsche è dilagato nella prima metà del Novecento. Ancora oggi i parlamentari che inveivano su Ventotene senza vederne gli scogli, si credono un’Avanguardia di eletti. Ma – visto che gli elettori non premiano più le sinistre – hanno spostato il sogno di conquista del potere reale al mondo virtuale delle opinioni e della comunicazione. Dagli anni Novanta sono diventati i guardiani della morale. Chiaramente, essendo la carne debole, cadono di continuo in contraddizione. Lo stesso filosofo tedesco Nietzsche, quello del Superuomo che – come un nuovo redentore – prende su di sé i mali del mondo – ma senza crocifiggerli in se stesso come uomo – è l’autore di un saggio intitolato Umano, troppo umano. Allora meglio il pensiero liberale che, conscio dei limiti umani, ragiona tenendo conto di questi, senza proporsi come un “sole dell’Avvenire” tinteggiato di sangue altrui (al contrario di Cristo).
Ricordo che nel 1977 a Bologna, nei mesi della rivolta della sinistra situazionista – soffocata dai cupi gruppi della sinistra extraparlamentare – i leader del Partito comunista venivano classificati come Avan/guardia perché usavano controlli polizieschi, tant’è che chiesero l’intervento dei blindati dell’esercito. Solo così si capisce il pesante intervento di Eugenio Scalfari cui, in data 12 Ottobre 2016, cercò di porre riparo Gustavo Zagrebelsky sempre su La Repubblica. Il drammatico articolo del fondatore del quotidiano ventotenista-piddino è così sintetizzato: “l’oligarchia è la sola forma di democrazia”. Scalfari non pensava all’antica Roma né agli oligarchi di Putin, ma perché allora parlava in quei termini, come se – divenuto un petrarchesco vecchierel canuto e bianco – potesse togliersi il bavaglio di osservanza laico-socialista tornando al tema del potere, perché la deriva moralistico-virtuale del Pd era ormai poco digeribile per il vetusto giornalista.
Prendiamo un post-rivoluzionario di oggi, un ragazzo di buona famiglia affiliato a Ultima Generazione, movimento che ha recentemente fatto irruzione nel ristorante milanese di Carlo Cracco “perché Cracco costa troppo”. Quel giovanotto ipotetico immagino poco sappia del Gaio Gracco moralizzatore dei senatori romani. Eppure si figura e viene raffigurato come il tribuno del popolo Gaio Gracco che fa irruzione nel ristorante di Carlo Cracco. E poi se ne va, perché oggi nessuno fa la fine di Gaio Gracco, nel cosmo virtuale. Parliamo quindi di un integralismo filmico e seriale, che va in onda sui banchi del Parlamento, nei salotti televisivi, nei social, nei consigli comunali, sul bus 442. Una forma di post-religione in cui si adora quel moralismo politicamente corretto che in America definisce una puerpera come “persona allattante”.
Il piddino trova una nuova strada rivendicando il diritto di piegare la storia e la realtà alla propria (v)ideologia. Ecco quindi perché Scalfari precisa che “le democrazie, di fatto, sono sempre guidate da pochi e quindi altro non sono che oligarchie”. Ma ciò è vero soprattutto nelle dittature: non si può paragonare Trump col sistema di potere di Putin. Zagrebelsky cerca invano di controbattere: la sinistra non ha quasi mai creduto alla democrazia diretta. Quella è l’utopia di pochi liberali. Però, almeno in parte, andrebbe incentivata, anche se “per governare è totalmente inadatta”, scrive Zagrebelsky, che aggiunge con Scalfari: “Un’alternativa ci sarebbe, ed è la dittatura. Poiché, però, la dittatura è anch’essa un’oligarchia, anzi ne è la forma estrema, si dovrebbe concludere che la differenza rispetto alla democrazia non è di sostanza”.
Eccoci spiegato l’utilizzo della democrazia: è come ai tempi di Lenin e dei Soviet, è solo un’arma per ottenere il fine ultimo, che non è la redenzione del genere umano, ma la redenzione degli avanguardisti verso il potere umanitaristico da loro guidato. Precisa però Zagrebelsky: “Nell’ultima frase del secondo editoriale, Scalfari m’invita cortesemente a riflettere sulle sue tesi. Se fosse come detto sopra, dovremmo concludere che l’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia è una Repubblica democratica”; “la sovranità appartiene al popolo”) è frutto di un abbaglio, che i Costituenti non sapevano quel che volevano, che hanno scritto una cosa per un’altra”. Giustamente Zagrebelsky aggiunge che l’oligarchia “è il regime della menzogna, della simulazione. Se è così, se cioè non ne facciamo solo una questione di numeri ma anche di attributi dei governanti e di opacità nell’esercizio del potere, l’oligarchia, anche secondo il sentire comune, non solo è diversa dalla democrazia, ma le è radicalmente nemica. Aveva, dunque, ragione Norberto Bobbio quando denunciava tra le contraddizioni della democrazia il “persistere delle oligarchie”.
Qui si vede che per oligarchia si intendono le così dette “lobby” o “gruppi di interesse”. In Italia sono haram, un peccato mortale. Nei Paesi anglosassoni se ne prende atto, le lobby sono cosa pubblica e trasparenti il più possibile. Il problema non è l’oligarchia ma la lobby capitalista. A questo punto Zagrebelsky propone a Scalfari un’idea alternativa. Dice: “La democrazia è conflitto. Quando il conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle oligarchie (capitaliste, ndr.). Le costituzioni democratiche sono aperte a questo genere di conflitto (di classe ieri e di una nuova classe oggi? ndr.), quelle che lo prevedono come humus della vita civile e lo regolano, riconoscendo diritti e apprestando procedimenti utili per indirizzarlo verso esiti costruttivi e per evitare quelli distruttivi”. È una dialettica hegeliana che presenta una pessima declinazione in Italia. Il Parlamento e i salotti politici televisivi sono l’area di questo conflitto permanente trotskiano che terrebbe viva la democrazia “popolare”.
Parlamento e dibattito pubblico testimoniano il contrario: sono piuttosto l’araba fenice del conflitto destra-sinistra, in cui la sinistra incarnerebbe il bene per mezzo dell’incarnazione in sé della democrazia. Però questo è il nuovo L’État, c'est moi! del Pd, mentre alla destra rimane l’etichetta del male. Il Pd resta posteggiato in quella ztl capitolina che è il conflitto tra destra e sinistra. Tutto il resto è relativo.
Aggiornato il 25 marzo 2025 alle ore 09:50