
Oggi il calendario segna una data che suscita la commozione degli amanti della libertà: ricorre il terzo anniversario della prematura scomparsa di Antonio Martino. Quando seppi che l’economista messinese ci aveva lasciati, provai uno sconforto e una nostalgia difficilmente esprimibili a parole. Temevo che il suo patrimonio valoriale sarebbe caduto nell’oblio di lì a poco ma, per fortuna, le mie previsioni erano sbagliate. Gli insegnamenti di Martino continuano a risuonare nei cuori dei suoi allievi e stimolano i più giovani a conoscere il pensiero liberale, ad approfondirne le basi teoriche, a leggere la realtà con un metodo interpretativo che affonda le proprie radici nell’individualismo metodologico.
Antonio Martino era un gentiluomo d’altri tempi, un’icona di coerenza e passione dallo spirito indomabile, un professore che aveva il coraggio di opporsi agli assiomi keynesiani e alle teorie pianificatrici dominanti nelle aule delle università. La sua fede nelle forze spontanee e impersonali del mercato era tale da renderlo un’eccezione persino nel minuscolo Pli, che – vale la pena ricordarlo – includeva al proprio interno delle fazioni non compatibili al principio del laissez-faire, se vogliamo usare un eufemismo. Mentre la segreteria di Renato Altissimo cercava a tutti i costi un’alleanza lib-lab che unisse la cultura dell’impresa al gradualismo tipico della socialdemocrazia, Martino aveva un obiettivo molto ambizioso: diffondere le idee della Scuola di Chicago per promuovere una “rivoluzione liberale” che scuotesse l’Italia dal torpore statalista e dalla frenesia burocratica. L’incontro con il premio Nobel per l’economia e maestro del monetarismo, Milton Friedman, fece comprendere al giovane studioso che le misure interventiste, oltre ad irreggimentare l’economia e ad ingessare i processi produttivi, tendono per loro natura ad accentrare il potere nelle mani di un’oligarchia che si autoalimenta e finisce con il calpestare l’individuo e le sue legittime pretese.
Martino riteneva che ridimensionare i poteri del governo fosse la condizione essenziale per restituire agli italiani l’autonomia e la capacità di scegliere il proprio destino senza interferenze arbitrarie. Un suo celebre aneddoto spiega il legame tra l’incremento della spesa pubblica e la mancanza di prospettive per le generazioni future: “Mio nonno era repubblicano, quando i repubblicani erano considerati un partito di sinistra. Allora lo Stato consumava il 10 per cento della ricchezza nazionale. Mio padre era liberale, quando i liberali erano considerati un partito di centrodestra. Allora lo Stato consumava il 30 per cento della ricchezza nazionale. Io sono considerato liberista e, quando ero un attivista, lo Stato consumava il 50 per cento della ricchezza nazionale. Mia figlia si definisce anarco-capitalista, e oggi lo stato consuma il 65 per cento della ricchezza nazionale. Sono sicuro che mio nipote sarà anarchico, perché lo Stato non si pone limiti nella sua voracità finché noi, voi, tutti quanti, non lo fermiamo”.
Il filosofo politico Murray N. Rothbard colse l’aspetto radicale e talvolta filo-austriaco del liberalismo di Martino in un saggio pubblicato l’anno prima della sua morte, dal titolo Revolution in Italy. Profondo conoscitore della realtà italiana, Rothbard sapeva bene che il “movimento improvvisamente fiorente”, “entusiasmante”, “dalla mentalità dura e dal pugno di ferro” vicino a Silvio Berlusconi era nato grazie ad Antonio Martino. Non a caso, il suo nome viene menzionato dall’autore ben dieci volte, più di qualunque altra figura intellettuale. “Al centro dei piani di Berlusconi”, scrive il teorico anarco-capitalista, “c’è il suo principale guru economico e consigliere di lunga data, il professor Antonio Martino (…) un membro di spicco dell’associazione economica internazionale per il libero mercato, la Mont Pelerin Society”.
Nella figura di Martino, Rothbard vede un intellettuale liberale a tutto tondo, “molto più amichevole nei confronti della minoranza austro-libertaria all’interno della Mont Pelerin Society” rispetto agli altri economisti di Chicago, e assolutamente coerente nel suo approccio alla politica in quanto ancorato al primato della libertà individuale. “Martino”, evidenzia Rothbard, “vuole andare lontano e veloce per salvare l’Italia dal suo zoppicante status di Stato sociale inflazionario”, e vuole farlo nel modo più lodevole ed autenticamente libertario, attraverso “drastici tagli fiscali”, “grandi aumenti delle deduzioni personali”, il ripristino di “una moneta sonante che ponga fine ai disavanzi”, il taglio delle “aliquote marginali” e la riduzione del “numero di scaglioni dell’imposta sul reddito (…) da sette a uno”.
Purtroppo, la maggior parte delle riforme che Martino aveva in mente sono state affossate dall’invidia dei suoi colleghi e da una classe politica ostile al progresso. Ma, almeno per oggi, lasciamo da parte il risentimento per ricordare l’eredità di un uomo unico: “semplicemente liberale”, come amava definirsi. Se fosse rimasto in nostra compagnia, Martino avrebbe salutato con grande entusiasmo l’ascesa del primo presidente libertario della storia, Javier Milei. Di sicuro, non avrebbe fatto mancare il suo sostegno alla drastica deregolamentazione intrapresa a Buenos Aires e a Washington. E, con il piglio ironico che lo contraddistingue, avrebbe ribadito il suo mantra esistenziale: “Meglio liberisti selvaggi che statalisti civilizzati”.
Aggiornato il 05 marzo 2025 alle ore 15:42