Polemiche sulla giustizia

Se fossimo un Paese meno segnato dalla divisività ideologica avremmo colto l’occasione del recente sciopero indetto dall’Associazione nazionale magistrati, per aprire una seria riflessione sull’alterazione dei rapporti fra sfera della giurisdizione e sfera della politica che si trascina in Italia ormai da molti decenni e che presenta alcuni legami con quanto accade in altre democrazie occidentali. Del resto, non si può continuare a non vedere la realtà per quello che essa è: ciò che le norme costituzionali definiscono “ordine” si è trasformato di fatto in un vero e proprio “potere” dotato di forza autonoma e in grado d’influenzare gli stessi processi politici. Secondo la giurista Shirley Mount Hufstedler le ragioni che hanno portato nel mondo giudiziario un mutamento di tale portata sono di ordine storico. “La crescente richiesta di giustizia – osserva – proveniente dalla società comporta che si chieda alle Corti di difendere le nostre libertà, di condannare l’inquinamento, di proteggerci dagli abusi dei poteri pubblici, di compensare le differenze sociali, addirittura di tutelarci ancora prima di nascere”. Si tratta, scrive lo storico del diritto, Lawrence M. Friedman, “del risultato finale della rivoluzione economica avvenuta nella seconda parte del Novecento foriera del declino del tradizionale laissez-faire e della contemporanea affermazione del Welfare State”.

Egli poi precisa che “così come non esistono oggi settori potenzialmente immuni dall’intervento pubblico, non vi sono aree che possano sottrarsi all’eventuale decisione di un giudice. Ove esiste una legge vi è anche un magistrato che in qualsiasi momento può essere investito del compito di interpretarla e di applicarla”. In tal senso, la politica – così come è intesa dal costituzionalismo moderno – è costretta a misurarsi quotidianamente con un’inedita riduzione della sua sovrana autonomia, condizione, quest’ultima, indispensabile in un sistema di democrazia liberale per svolgere una piena e plurale rappresentanza di valori e interessi. In un contesto siffatto, occorre inserire il caso Italia, là dove a causa della presenza di una classe politica poco coraggiosa e di una sinistra culturalmente giustizialista il perimetro entro cui si sviluppa l’azione dei magistrati si espande assai più che in altri Paesi. D’altro canto, nei primi anni Novanta, in piena Tangentopoli, l’esondazione di alcune procure arrivò al punto da pretendere di avere l’ultima parola anche nella stessa composizione dell’Esecutivo oltre che nelle decisioni assunte dallo stesso. Atteggiamento non dissimile riscontrato altresì nelle ultime settimane in riferimento alla riforma della giustizia e che ha portato allo sciopero dei giorni scorsi. Ammonisce Sabino Cassese, in Il Governo dei giudici, che “l’ordine giudiziario ha acquisito nel nostro Paese un ruolo diverso da quello prefigurato dalla nostra Costituzione. Ci si attendeva giustizia e si sono avuti giustizieri”. A tal proposito, vale la pena di ricordare quanto pronunciato il 6 aprile 2021 dal giudice della Corte suprema americana Stephen Breyer nel corso di una Scalia Lecture ad Harvard: “Se il pubblico vede i giudici come politici con la toga, la sua fiducia è destinata a diminuire. La legalità dipende dalla fiducia che le Corti siano guidate da princìpi giuridici e non dalla politica”.

Aggiornato il 03 marzo 2025 alle ore 12:28