L’impotenza europea nella questione ucraina

Analisi di una marginalizzazione annunciata

Nel febbraio 2022, pochi giorni prima dell’invasione russa, scrivevo su queste pagine che la crisi ucraina si sarebbe risolta “pacificamente” tra le due superpotenze nucleari, con la precisazione che “l’unica eccezione possibile, all’interno di una soluzione pacifica, è rappresentata dall’accentuarsi degli scontri armati nella guerra già in corso nel Donbass” senza nessuna proliferazione militare dello scontro. La recente telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin conferma la previsione fondamentale di quell’analisi: lo scontro diretto tra Stati Uniti e Russia non sarebbe mai avvenuto, proprio perché – scrivevo – “a Washington come a Mosca sono consapevoli che qualunque prova muscolare non potrà mai essere portata oltre il limite che comporterebbe uno scontro militare diretto”. Gli sviluppi degli ultimi mesi hanno dimostrato come la geometria del potere internazionale continui a ruotare attorno all’asse Washington-Mosca. Il conflitto ucraino, lungi dall’essere una semplice guerra regionale, si è rivelato il teatro di una complessa partita diplomatica dove le due superpotenze nucleari hanno costantemente calibrato il livello di tensione, mantenendolo sempre al di sotto della soglia critica. Le forniture militari occidentali all’Ucraina, le sanzioni economiche alla Russia e le contro-risposte di Mosca hanno seguito un copione non scritto ma ben definito di escalation controllata.

La pax economica di cui scrivevo allora, basata sull’accettazione unanime del capitalismo come sistema di produzione della ricchezza, sta emergendo come il vero architetto della soluzione del conflitto. La telefonata tra il presidente americano e il leader del Cremlino non è che la manifestazione più recente di questa dinamica, dove gli interessi economici prevalgono sulle ideologie e a maggior ragione sul livello di democraticità dei sistemi istituzionali. L’interconnessione dei mercati globali ha giocato un ruolo determinante nel moderare le posizioni più estreme. Le sanzioni occidentali, pur significative, hanno sempre mantenuto canali aperti per settori strategici, mentre la Russia ha continuato a onorare molti dei suoi impegni commerciali internazionali. Questa trama di interessi incrociati ha creato un sistema di checks and balances economici che ha impedito una rottura totale tra i blocchi.

Ancor più esatta si è rivelata l’analisi sulla posizione dell’Europa. Scrivevo che “le cancellerie europee sembrano oscillanti”, divise tra il “rafforzamento della Nato” e un “progressivo avvicinamento alla Russia”. Oggi, mentre assistiamo alla debolezza strutturale dell’Unione europea nel determinare le sorti del conflitto, quelle parole risuonano con particolare attualità e pericolosità. La paralisi decisionale europea si è manifestata in numerose occasioni: nella difficoltà di coordinare una risposta unitaria alle forniture energetiche russe, nell’incapacità di sviluppare una strategia autonoma di difesa continentale e, più recentemente, nell’assenza di una voce europea autorevole nel processo di pace. La frammentazione degli interessi nazionali nonché l’architettura istituzionale europea hanno impedito l’emergere di una vera politica estera comune, lasciando il campo libero al duopolio russo-americano.

L’Europa si trova esattamente dove la collocava quell'analisi: in bilico tra un’alleanza atlantica sempre più condizionata dagli umori americani e l’impossibilità di costruire una vera politica autonoma verso Mosca. Il “disinteressamento da parte degli Stati Uniti” si è manifestato nella sua forma più evidente, con Washington che dialoga direttamente con Mosca, ignorando completamente Bruxelles. Questo bypass diplomatico rappresenta il culmine di un processo di marginalizzazione del ruolo europeo che ha radici profonde nella mancata evoluzione dell’Ue verso una vera unione politica e militare. L’evoluzione della crisi ucraina ha messo in luce una verità più profonda della semplice contrapposizione tra blocchi geopolitici. Le dinamiche che abbiamo osservato non sono il frutto di calcoli diplomatici tradizionali, né tantomeno il risultato di analisi basate su vecchi paradigmi interpretativi come l’hegelo-marxismo o il positivismo scientista. Il mondo contemporaneo si muove secondo logiche più radicali. Viviamo in un’epoca dove il tramonto delle verità assolute ha lasciato spazio a un nuovo ordine internazionale, dominato non più da principi ideologici ma dalla nuda realtà della potenza. È proprio questa assenza di fondamenti metafisici condivisi che rende la deterrenza nucleare non solo uno strumento militare, ma il vero architetto silenzioso degli equilibri mondiali. La telefonata Trump-Putin non è che l’ultima manifestazione di questa realtà: quando si tratta di decisioni cruciali, il tavolo delle trattative si restringe automaticamente ai detentori della potenza nucleare. Non è un caso, né una scelta: è la logica stessa del potere nell’era contemporanea che detta questa geometria delle relazioni internazionali.

In questo quadro, il diritto internazionale mostra il suo vero volto: non più guardiano di principi universali, ma sofisticato sistema di gestione legittima della forza. Le potenze nucleari ne sono perfettamente consapevoli, e proprio questa consapevolezza ha permesso loro di mantenere il conflitto ucraino entro limiti controllati, al di qua della soglia dell’apocalisse. L’impotenza europea emerge così in tutta la sua drammatica evidenza. Non è tanto l’assenza di una politica estera comune a paralizzare l’Unione, quanto la sua strutturale incapacità di porsi come potenza militare e nucleare autonoma. Bruxelles può invocare il diritto internazionale, può richiamarsi ai valori democratici, ma resta esclusa dalle stanze dove si decidono realmente le sorti del conflitto.

Questa marginalizzazione del Vecchio continente non è un incidente di percorso, ma il prezzo dell’impotenza in un mondo dove la forza, nella sua forma più estrema, determina ancora i reali confini del potere. L’Europa, stretta tra la dipendenza atlantica e l’impossibilità di un dialogo paritario con Mosca, scopre così i limiti della sua costruzione puramente economica e giuridica. La soluzione della crisi ucraina si sta delineando proprio secondo questa implacabile logica di potenza, dove gli attori principali non sono determinati dalla loro statura morale o dalla loro adesione a principi democratici, ma dalla loro capacità di sedersi al tavolo della deterrenza nucleare. Una realtà che l’Europa, nel suo idealismo giuridico-economico, fatica ancora a metabolizzare. Ma la geometria del potere che ha governato finora gli equilibri mondiali potrebbe presto rivelare la sua fragilità. Nuovi attori emergono all’orizzonte, portatori di una potenza che sfugge alle tradizionali categorie interpretative. Non è più solo questione di equilibri tra potenze nucleari storiche: l’ordine bipolare sta cedendo il passo a una realtà più complessa e imprevedibile.

La stessa natura del potere sta mutando nelle sue forme fondamentali. L’arsenale nucleare, da supremo garante degli equilibri mondiali, rischia di diventare solo uno dei tanti strumenti in un panorama dove la supremazia tecnologica assume forme sempre più sottili e pervasive. La moltiplicazione dei centri di potenza non segue più le logiche territoriali degli Stati nazionali del secolo scorso, ma si muove in spazi virtuali e dimensioni impalpabili, dove il confine tra guerra e pace diventa sempre più sfumato. Eppure, al di là di questi scenari di possibile destabilizzazione, si intravede una tendenza di più lungo periodo. La tecnica, nella sua inarrestabile espansione, sta plasmando un nuovo ordine mondiale. Al di là degli alti e bassi di violenza e delle guerre locali, il pianeta sembra muoversi verso una pax tecnica: un sistema dove l’interconnessione tecnologica ed economica diventa così pervasiva da rendere sempre più costoso, se non impossibile, ogni tentativo di rottura degli equilibri globali.

Questa pax non è l’utopia di un mondo senza conflitti, ma piuttosto l’’emergere di un sistema dove la potenza stessa si trasforma, assumendo forme sempre più sofisticate e meno militarizzate. La sfida del futuro non sarà tanto nel gestire il potere nucleare, quanto nel governare questa transizione verso un ordine mondiale dove la supremazia tecnologica diventerà il vero discrimine tra chi decide e chi subisce le sorti del pianeta.

Aggiornato il 17 febbraio 2025 alle ore 13:55