![Il caso Almasri e l’attribuzione di responsabilità](/media/8310080/opinionefoto_20250207142317496_01fd7611ef507572713e32c45f178490.jpg?crop=0.093137254901960786,0,0,0&cropmode=percentage&width=370&height=272&rnd=133834138910000000)
L’arresto di Nijeem Osama Almasri, effettuato dalla Digos sulla base del mandato emesso dalla Corte penale internazionale, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte di appello di Roma per due ragioni: innanzitutto perché, sostengono i giudici, la legge 237/2012 regolante la fattispecie non prevede la restrizione della libertà personale in via precautelare. E poi perché la procura generale non ha avanzato istanza di custodia cautelare in virtù di mancata richiesta proveniente dal ministro della Giustizia pur “interessato” dal procuratore generale (nel provvedimento si legge letteralmente il termine “interessato”. Non è dato sapere in cosa sia consistito questo interessamento ovvero cosa esattamente sia stato inviato o chiesto al ministro).
Per quanto riguarda il primo punto, sulla possibilità o meno di misura precautelare, va notato che in accoglimento di questa tesi le forze dell’ordine si dovranno astenere da qualsiasi intervento se non dopo che:
1) Una richiesta sia stata ritualmente inviata dalla Cpi al ministro della Giustizia nei modi previsti dalla legge;
2) Il ministro, ricevuta la richiesta, abbia trasmesso gli atti al procuratore generale della repubblica presso la Corte di appello di Roma;
3) Sia stato emesso provvedimento di custodia cautelare.
Al di là dei rilevi più tecnici sulla possibilità o meno di arresto precautelare (che qui non è la sede per affrontare e per i quali rimando a chi se ne è occupato) questa interpretazione, non l’unica ammissibile, è in pratica semplicemente incompatibile con il funzionamento dell’intero sistema che necessita di velocità nell’intervento. Inoltre, come è stato scritto, “non esiste, in ambito processuale penale italiano, un meccanismo di custodia cautelare che non sia preceduto dalla possibile applicazione di un arresto precautelare, ricorrendone naturalmente i presupposti. Si tratterebbe, qualora venisse definitivamente accolta la lettura escludente della Corte di appello, di una gravissima anomalia, relativa proprio ai casi più eclatanti di violazioni penali, inerenti appunto crimini dall’elevatissimo profilo offensivo (in tema di genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra)”(Giulio Vanacore).
Sul ruolo del ministro nella procedura occorre approfondire, dati i risvolti politici: la legge 237/2012 (Norme per l’adeguamento alle disposizioni sullo statuto istitutivo della Corte penale internazionale; che ricalca la legge sullo statuto istitutivo della Cpi) agli articoli 11 (richiesta della Cpi di applicazione di misure cautelari ai fini della consegna) e 14 (richiesta della Corte penale internazionale di misure cautelari provvisorie precedenti la richiesta di consegna) non prevede alcuna “irrinunciabile interlocuzione” (così si legge nel provvedimento di scarcerazione) tra ministro della Giustizia e procura generale presso la Corte di appello di Roma. Né in quegli articoli è scritto alcunché circa la necessità di una qualche richiesta ministeriale quale presupposto della misura cautelare, ciò che invece si adombra non senza ambiguità nel provvedimento della corte romana laddove si legge che il ministro “ad oggi, non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito”. Con quelle parole si è creato e gettato sul ministro, surrettiziamente e senza che egli abbia potuto esercitare il contraddittorio, un dovere in verità inesistente nella legge.
La necessità di questi presupposti (ripeto: non precisamente identificati nel provvedimento nel quale, in modo vago e ben distante dalla precisione giuridica dovuta, si scrive di “interlocuzione necessaria” – e cosa sarebbe? – e “richiesta” – di che tipo? – utilizzando termini che non sono però presenti nella legge) è stata rinvenuta dalla corte di appello di Roma nell’articolo 2.l 237, secondo il quale “I rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale sono curati in via esclusiva dal ministro della giustizia, al quale compete di ricevere le richieste provenienti dalla Corte e di darvi seguito”. In tale ottica il ministro si atteggia quale trait d’union tra Corte penale internazionale e procuratore generale. Incredibilmente non viene citato, ed è grave omissione, l’articolo 4 (per il quale “Il Ministro della giustizia dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale, trasmettendole al procuratore generale presso la corte d’appello di Roma perché vi dia esecuzione”) dal quale si evince il ruolo di semplice cinghia di trasmissione svolto dal ministro, quale organo che notizia il pg del mandato della Cpi.
Pur tuttavia nell’articolo 11, sulle richieste di misure cautelari e di consegna provenienti dalla Cpi, si parla di “ricezione degli atti da parte del procuratore generale” senza alcuna specificazione relativa al fatto che gli atti debbano necessariamente provenire dal ministro della Giustizia. Né ciò può desumersi sistematicamente da quanto sopra esposto, dato che la provenienza dal ministro della Giustizia appare come una conseguenza del procedimento descritto dalla legge piuttosto che come un presupposto per l’emissione del provvedimento di custodia cautelare: non sta scritto da nessuna parte infatti che, affinché il procuratore generale possa legittimamente procedere la notizia non possa legittimamente arrivargli aliunbde (nel caso di specie lo aveva saputo dalla questura di Torino, squadra mobile Digos, che aveva proceduto all’arresto).
Soprattutto da nessuna parte v’è traccia circa la necessità di una previa particolare “richiesta” ministeriale quale precondizione per l’emanazione della misura. L’assenza di una reale funzione sostanziale di alcun tipo (di impulso, di domanda o d’altro) riconosciuta in capo al ministro nella scansione procedimentale individuata dalla legge rafforza la convinzione che il suo ruolo di notiziare il procuratore generale è ben sostituibile da altre forme di conoscenza che questi possa ricevere. Questa lettura peraltro è armonica con la tipologia di intervento richiesto dalla situazione concreta e facilita la risoluzione del problema dell’ammissibilità di misura precautelare. D’altra parte, quando la legge in esame presuppone un intervento del ministro con un suo provvedimento del quale si debba assumere una responsabilità (che sia politica o giuridica) lo contempla espressamente: secondo l’articolo 13 comma 7 il ministro deve provvedere con decreto sulla richiesta di consegna (momento ben successivo alla misura cautelare) e ove non provveda nel termine previsto (20 giorni dal consenso della persona da consegnare o dall’esaurimento dei mezzi di impugnazione) la misura deve essere revocata (articolo 12 comma 1). In tale ottica quindi l’articolo 2 sul quale si è basata la decisione non appare decisivo: ivi non si tratteggia un intervento ministeriale come presupposto per l’attivazione della procedura ma semplicemente gli si conferisce un’attribuzione di carattere generale la cui portata e il cui valore vengono poi specificati nei casi in cui quell’intervento viene espressamente previsto nella legge; precisandosi anche quando questo si atteggia a precondizione per provvedimenti successivi, come nell’articolo 13.
Ma ammettiamo di aderire alla lettura che la Corte di appello dà della normativa e così che la misura cautelare, ai sensi del procedimento previsto e sopra riportato, debba essere preceduta da una qualche azione (non meglio precisata) del ministro diretta nei confronti del procuratore generale. A questo punto ne deriva inevitabilmente che, dovendosi rispettare quel procedimento, il presupposto dell’intervento del ministro è che gli sia pervenuta la richiesta fattagli da parte della Cpi nel modo previsto dall’articolo 87 della legge 232/1999, ossia in via diplomatica. In assenza di quanto sopra il ministro non può fare nulla. E in particolare non può di certo inviare al procuratore generale atti di cui non è ancora in possesso nei modi stabiliti. Né si può dire che in questo caso valgono surrogati conoscitivi, quali informative al ministro medesimo provenienti da parte di altri soggetti, come coloro che hanno proceduto all’arresto (la notizia gli arriva il giorno 19 tramite la Digos). Se difatti si afferma che siamo davanti ad una procedura precisa e scandita allora ciò vale per tutti i soggetti coinvolti. Se invece si ammette che la conoscenza degli atti è surrogabile da forme diverse da quelle canoniche allora questa impostazione vale anche per il procuratore generale e per la Corte di appello, che della richiesta della Cpi erano in possesso.
Orbene, la comunicazione degli atti al Ministro è stata inoltrata dalla Corte penale internazionale all’ambasciata italiana in Olanda e dall’ambasciata è giunta al Ministero della Giustizia alle 13.57 del 20 gennaio. Inoltre l’atto è incoerente, tanto che verrà poi emendato dalla Cpi ed inviato nuovamente il giorno 24, ossia a cose fatte. Torniamo quindi al giorno 20, quello della ricezione. Al ministro non viene lasciato neanche il tempo di visionare la richiesta di arresto, controllarne la conformità e verificarne la congruità (e abbiamo visto che era problematica), per poi o eventualmente consultare la Cpi in caso siano individuati aspetti problematici nell’ottica della collaborazione internazionale (come afferma la stessa Corte in un suo comunicato si debba fare) o trasmetterla direttamente al procuratore generale presso la corte di appello di Roma che, appena il giorno dopo, il 21, viene disposta la scarcerazione di Almasri. In conclusione abbiamo:
1) La Cpi che tarda ad emanare ed inviare la richiesta di arresto, della quale pure era stata investita ben precedentemente dal suo organo accusatorio, e la manda solo quando Almasri – che gira l’Europa da turista indisturbato per ben 12 giorni – è diretto in Italia. Un ritardo colpevole che di per sé desta sospetto, richiamando alla memoria il caso Gheddafi ovvero la voglia di creare caos nella Libia per danneggiare il governo italiano;
2) L’invio infine di un provvedimento errato, tanto che giorni dopo è stato compiuto un intervento correttivo; il che è indizio di fretta nella sua emissione e rafforza il sospetto di cui sopra;
3) Il procuratore generale, cui la pratica comunque era arrivata egualmente, che – dimentico di rappresentare l’accusa – interpreta la normativa in modo eccessivamente formalistico, non condivisibile e ben oltre il garantismo a favore di Almasri neanche fosse il suo avvocato e neppure provando a ipotizzare una tesi diversa. Un atteggiamento raramente visto nei tribunali penali;
4) la Corte di appello che immantinente emette ordinanza di scarcerazione appiattendosi sulla ricostruzione del pg senza nessun approfondimento ulteriore, che era certamente dovuto almeno a livello di analisi data la delicatezza della questione;
5) L’attribuzione nel provvedimento di scarcerazione di un dovere improprio in capo al ministro della Giustizia, quello di inoltrare una fantomatica “richiesta” (non meglio identificata) al procuratore generale. Che non trova però alcun riscontro nella legge. Il ministro quindi si trova ingiustificatamente condannato (non in senso tecnico, ma sostanziale e mediatico) per una supposta omissione senza essere stato parte del procedimento che ha portato a questa sua condanna.
È dunque su questa lunga serie di omissioni, ritardi ed errori giudiziari che si innesta la costruzione della colpevolizzazione di Carlo Nordio. Il quale, ricevuti gli atti solo il giorno prima del provvedimento della Corte di appello, non ha avuto un congruo tempo per procedere (un giorno sembra davvero poco, visto come se la prendeva comoda la Cpi) e si è trovato di fronte ad una scarcerazione inattesa, figlia di una interpretazione assai discutibile e imprevedibile. A quel punto forse si pretenderebbe (non è chiaro nemmeno questo) che egli avrebbe dovuto, una volta nota solo con la pubblicazione del provvedimento l’imprescindibilità del passaggio degli atti dal ministero alla procura, avrebbe dovuto inviarli in fretta e furia al procuratore generale. Seppure questi già ne era in possesso, tanto da avere egli stesso interessato il Ministero il 20 gennaio. Ciò avrebbe posto rimedio alla carenza procedimentale avvenuta secondo la ricostruzione effettuata dalla corte e consentito al procuratore di emanare finalmente il provvedimento restrittivo. Cosicché, nel parossismo di un formalismo esasperato, nel mentre ministro della Giustizia e procura presso la Corte di appello di Roma avrebbero dovuto affrettarsi al fine di scambiarsi la corrispondenza nel senso dovuto (da A e B, valido, anziché da B ad A, invalido), Almasri – ormai in libertà – avrebbe potuto nuovamente fare il giro di mezza Europa.
In questa serie di strabilianti ma assai opachi eventi e di pilatesche omissioni e interpretazioni, esclusivamente il governo (non è chiaro perché non solo il ministro della Giustizia) è chiamato a rispondere, dato che tutti i vari magistrati (nazionali e internazionali) che, sotto diversi profili, hanno contribuito all’esito sono esenti per ruolo da qualsivoglia responsabilità. Governo che si è trovato, non per magia ma per condotte più o meno consapevoli e per errori altrui, in una situazione di estrema difficoltà sia politica che giuridica; sia fosse avvenuto l’arresto sia che fosse mancato.
Le conclusioni da trarre sono che si deve uscire dallo statuto di Roma, dato che la Cpi è organo pretenzioso, ideologizzato, non affidabile, pericoloso per l’interesse nazionale e per la pace; che, senza stare troppo a discutere, va negata l’autorizzazione di cui all’articolo 96 della Costituzione, levando all’autorità giudiziaria la possibilità di procedere; che anzi va ripristinato l’articolo 96 nella sua versione originaria che prevedeva che il presidente del Consiglio dei ministri e i ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni sono posti in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune, non contemplandosi la loro soggezione all’autorità giudiziaria ordinaria; che va ripristinato anche l’articolo 68 della Costituzione nella sua pienezza, ovvero nella parte in cui prevedeva l’autorizzazione della Camera di appartenenza per poter sottoporre un parlamentare a procedimento penale. Autorizzazione a procedere che non era stata inserita per caso nella Carta costituzionale ma per assicurare l’indipendenza del Parlamento dalle intromissioni degli organi giudiziari nell’attività politica.
Aggiornato il 07 febbraio 2025 alle ore 14:58