In un esilarante film di anni fa Vittorio Gassman dava vita a un personaggio estroso e amante dei paradossi il quale, rivolgendosi a un interlocutore che usava parole difficili, concluse che “non amava i termini desemplicizzati”. L’onorevole Elisabetta Gualmini, parlamentare europea del Partito democratico, nonché docente di Scienze politiche, probabilmente non sarebbe d’accordo poiché l’altra sera, in un talk-show, ha esordito nel suo intervento affermando che Giorgia Meloni adotta “una formula di comando avversariale”. C’è da chiedersi quanti telespettatori abbiano familiarità con un aggettivo del genere, il cui impiego è piuttosto raro e abbastanza tecnico in ambiti come il diritto o nei dettagli analitici della politologia ma sicuramente assente nel dibattito politico pubblico. Se, poi, si tiene conto dell’impropria attribuzione alla presidente del Consiglio dei ministri del ruolo di comando (che non ha perché, secondo Costituzione, un presidente dirige, non comanda) si ottiene un quadretto di delizioso, ma incauto, intellettualismo studiato per far cadere dall’alto una competenza scientifica poco attenta alla chiarezza e semplicità dell’argomentazione. È un po’ come quando i telegiornali si danno le arie di modernità e di cultura anglosassone parlando di sio (pronuncia del termine Chief Executive Officer, cioè amministratore delegato) o di sold out (esaurimento dei prodotti in vendita) in fatto di acquisti natalizi.
Nei decenni passati queste mode erano definite come barriere linguistiche erette da chi desiderava passare per persona di livello internazionale ma, ora, pare che questo vizio si stia estendendo a categorie concettuali ben più rilevanti al fine di stabilire sussiegose differenze culturali. Una concezione avversariale, in politica parlamentare ma anche in altri contesti, non indica altro che la contrapposizione fra maggioranza e minoranza senza sconti, ossia secondo il principio win-lose, vinci o perdi. È chiaro che l’adozione di una simile regola di condotta, se portata oltre un certo limite, può generare danni per la collettività poiché porta, dal lato della maggioranza, alla chiusura ermetica nei riguardi di possibili utili suggerimenti della minoranza e, da parte di quest’ultima, alla negazione generale di qualsiasi efficacia dei provvedimenti governativi. Ora, c’è da chiederci a chi spetti il primato nelle due prospettive sopra citate nella contingenza politica italiana attuale.
È mia opinione che, a conti fatti, prevalga in tutta evidenza la contestazione da parte dell’opposizione. L’esistenza stessa del Governo Meloni, già dai primi giorni del suo insediamento, è stata valutata come inaccettabile, pericolosa, autoritaria e così via, rivelando dunque un rifiuto aprioristico che certo non appare lontano da una concezione avversariale decisamente dura e ruvida, senza appello. In questo scenario la stessa posizione dei sindacati di sinistra assume i caratteri di una avversarialità totale a meno che qualche altro intellettuale scovi qualche ulteriore termine per definire la rivolta sociale di Maurizio Landini. È naturale che l’opposizione non riversi incessanti elogi nei confronti dell’azione governativa perché non è questo il suo compito ma il livore e la negazione della legittimità sostanziale del Governo, dato che quella formale è inoppugnabile, sono un’altra cosa. Le sinistre, più che mai in Italia, sono da sempre, per precise e mai rinnegate ragioni ideologiche, avversariali nel senso più radicale del termine e sono disposte a rispettare e ad applaudire un Governo se e solo se ne fanno parte. E la chiamano democrazia.
Aggiornato il 17 dicembre 2024 alle ore 10:49