Ho un bellissimo ricordo di Paolo Pillitteri, era il sindaco che mi ha fatto sognare Milano. Città che per noi meridionali rappresentava il simbolo del fare, del lavoro, di quella dinamicità opposta alla statica e soleggiata controra che martoriava i nati al Sud. Quando Paolo era sindaco del capoluogo lombardo, si respirava odore di lavoro sin dalle prime ore del mattino: aria adrenalinica che istintivamente non ti faceva stare con le mani in mano. Finita la Prima Repubblica, Paolo aveva ripreso a scrivere, era condirettore de L’Opinione: Arturo Diaconale era stabilmente su Roma e Paolo calava senza mai un preavviso nella sede milanese.
Un giorno, da poco finita la riunione di redazione negli uffici di via Ariosto, andammo a prenderci qualcosa in un bar della zona. A quattr’occhi mi confessava di non essere granché entusiasta della redazione milanese, perché non coglievano al volo i suoi spunti, le provocazioni. Soprattutto lamentava che i giornalisti di oggi conoscono sempre meno come funziona sia la politica che la vita reale, la strada. Provenivamo da diverse esperienze politiche, lui socialista e io a destra, poi entrambi trovammo un comune solco dialettico nel “Socialismo Tricolore”: quel dialogo tra craxiani e missini abilmente intessuto Giano Accame.
Va dato atto che Arturo Diaconale era stato negli anni Ottanta un antesignano di quanto si sarebbe poi verificato con la discesa in campo di Silvio Berlusconi: ovvero un dialogo tra liberali, missini e socialisti craxiani.
Arturo, Giano e Paolo Pillitteri erano così assurti ad una sorta di polo attrattore di tutte le energie intellettuali che, a destra come a sinistra e al centro, credevano nell’Italia, nel suo primato industriale, in quell’idea di patria cara ai missini come ai liberali ed ai socialisti craxiani. Da qui l’amicizia dello scrivente con Paolo e con i succitati compianti di percorso politico e giornalistico.
Le ultime volte che ho sentito colui che appello come “ultimo vero Sindaco di Milano”, notavo aveva perso un po’ di smalto, causa acciacchi vari, e mi riferiva di non riconoscere più il suo capoluogo lombardo.
Paolo aveva ancora tanto da raccontarci, basti solo dire che, come deputato, aveva vissuto l’XIma legislatura della Repubblica Italiana, la più breve, iniziata nell’aprile ’92 e terminata nell’aprile ’94: vedeva la fine della Prima Repubblica, di fatto preannunciata con l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro come capo dello Stato il 25 maggio 1992. I fatti di quegli anni li avevamo scandagliati, esaminati, girati e rigirati nelle tante discussioni con Paolo e Arturo. Al punto che Arturo, poco prima di lasciarci, ebbe a chiedermi a che punto fosse l’opera omnia che avevamo ipotizzato di realizzare con Paolo: il grande libro verità su coloro che vollero distruggere Craxi e l’Italia, su quella riunione che i poteri forti organizzarono il 2 giugno 1992 sul panfilo della regina Elisabetta (Royal Yacht “Britannia”) per ordire la privatizzazione dell’Italia.
“Bisogna scrivere queste cose ‒ mi diceva Paolo Pillitteri ‒ la gente deve conoscere la verità sul perché i poteri speculativi finanziari internazionali volevano buttare giù Craxi... e purtroppo hanno incontrato i favori di troppi traditori dell’Italia e di Bettino”.
Rino Formica appellava quei signori della “speculazione internazionale” come “invisibili” (erano 007 inviati in Italia dalla “upper class” della speculazione finanziaria), non a caso Mani Pulite decollava dopo quella riunione sul Britannia. Una vera e propria congiura contro il Belpaese che probabilmente dovrò finire di raccontare tutto da solo.
A parer mio, Pillitteri è stato il politico che meglio di tutti ha compreso lo spirito artistico di ambrosiano, basti solo dire che già nel 1970 faceva parte della giunta milanese come assessore alla Cultura. Ruolo meritato, aveva sempre aiutato tutte le strutture teatrali milanesi: soprattutto adorava il Derby, il locale di cabaret in viale Monte Rosa, dove erano passati tutti i nomi più importanti del cinema, della musica, del teatro: Lino Patruno e Nanni Svampa con i loro Gufi, Gianfranco Funari, Diego Abatantuono e anche Beppe Grillo.
Paolo amava il cabaret e la buona musica. Con leggerezza aveva fatto di Milano il salotto europeo, e in certi momenti mondiale: dando spazio alle idee di Versace, Trussardi e Krizia aveva attirato sotto la Madonnina tutta l’industria mondiale della moda, del cinema, dell’intrattenimento.
Una volta mi disse: “Ricordi come erano belle le donne che incontravi un tempo per Milano? Ma che fine avranno fatto? Le ragazze di oggi non sanno più vestire, camminare, non c’è classe, non vedi più una bella scarpa décolleté o un tailleur, solo polacchine e vestiti dozzinali. Si combinano come vecchie ciabatte”.
Aveva un innato senso estetico e anche artistico. Certo, alcune trovate avevano destato qualche alzata di scudi da parte della politica tradizionale, qualche artista aveva pensato d’incartare i simboli di Milano: ma Pillitteri aveva intuito che certe trovate facevano puntare i riflettori sulla sua città, trasformando il capoluogo lombardo nel luogo dove si progettava l’industria pubblicitaria, il design, le tendenze.
Silvio Berlusconi riconosceva a Paolo Pillitteri il merito di aver aumentato il valore intrinseco e culturale di Milano e d’aver fatto tutto col sorriso, con la leggerezza di “una Milano da bere” accompagnata dai jingle di Enzo Jannacci.
Paolo, manchi a tutti noi.
Aggiornato il 06 dicembre 2024 alle ore 09:59