Nel mese di novembre, durante un seminario a Shanghai sulla cosiddetta “sinicizzazione della religione”, Joseph Shen Bin, controverso “vescovo” cinese nominato dal Partito comunista cinese (Pcc), ha esortato il clero locale a studiare e predicare l’ideologia del regime comunista. Secondo quanto riportato dall’agenzia Bitter Winter, il focus del seminario è stato l’approfondimento dei documenti della “Terza sessione plenaria del 20° Comitato centrale del Pcc” e delle “riflessioni di Xi Jinping sulla sinicizzazione della religione”. La giornalista Angeline Tan ha riportato nei dettagli l’accaduto su Life Site News. Questa vicenda mette in luce, ancora una volta, in cosa consista la cosiddetta “sinicizzazione” promossa dal Pcc: non un adattamento delle religioni (in particolare quella cattolica) alla cultura cinese, ma una subordinazione della fede all’ideologia marxista-leninista del partito. I cattolici in Cina si trovano così schiacciati sotto la mano di un regime che usa il potere per negare il messaggio del Vangelo, nel quale quelli vorrebbero credere e liberamente testimoniare.
La nomina di Shen Bin a vescovo di Shanghai, avvenuta il 4 aprile 2023, rappresenta un segnale inquietante. Il Vaticano stesso ha ammesso di essere stato informato dai media solo poco prima dell’insediamento, confermando che non è stata la Santa Sede, ma il Pcc a designare il vescovo. Questa decisione viola apparentemente l’accordo sino-vaticano siglato nel 2018, il quale prevede, almeno formalmente, che Roma abbia l’ultima parola nella nomina dei vescovi. Tale accordo, mai reso pubblico, consente al Pcc di proporre i candidati, mentre il Papa dovrebbe approvarli. Tuttavia, come dimostra il caso di Shen Bin, il partito non intende accettare neppure questa fragile mediazione, scegliendo unilateralmente chi dovrebbe guidare la Chiesa della Cina. Questo non è solo un affronto alla libertà della Chiesa, ma anche una violazione dei diritti dei fedeli cinesi, costretti a obbedire a vescovi che rispondono al partito.
Un recente rapporto dell’Hudson Institute, redatto da Nina Shea, ha rivelato come la repressione contro i vescovi cattolici fedeli a Roma si sia intensificata dopo l’accordo del 2018. Dieci vescovi approvati dal Vaticano hanno subito arresti arbitrari, sorveglianza costante, interrogatori della polizia ed espulsioni dalle loro diocesi per aver rifiutato di sottomettersi all’Associazione patriottica cattolica cinese (Apcc). Questo organismo, gestito dal regime, rappresenta l’estensione diretta del controllo comunista sulle comunità cattoliche. L’accordo sino-vaticano, dunque, anziché mitigare la persecuzione, sembra aver dato al Pcc una copertura diplomatica per inasprire le sue azioni repressive. I fedeli, già costretti a scegliere tra la Chiesa clandestina e quella patriottica controllata dallo Stato, vedono aumentare il peso della tirannia sulla propria libertà di coscienza. Il primo punto cruciale di riflessione riguarda l’accordo sino-vaticano stesso. Ad oggi, i suoi dettagli non sono stati resi pubblici, lasciando spazio a dubbi e sospetti sia tra i cattolici cinesi che nella comunità internazionale. È necessario che il Vaticano renda questo patto trasparente. Non si può pretendere che i fedeli, soprattutto in una situazione tanto drammatica, accettino incondizionatamente una politica che non capiscono, e che, a quanto pare, ha portato solo a un peggioramento delle persecuzioni.
In secondo luogo, una maggiore trasparenza sarebbe un atto di rispetto verso i cattolici perseguitati e verso i cittadini cinesi, costretti a vivere sotto un regime che calpesta i diritti fondamentali. La luce della verità, portata da un eventuale svelamento dell’accordo, potrebbe essere un primo passo per rivelare al mondo l’ingiustizia sistematica perpetrata dal Pcc contro i credenti. Ma la questione va ben oltre la trasparenza. La Chiesa cattolica è chiamata a dimostrare una ferma opposizione a un regime che, con la scusa della sinicizzazione, cerca di distruggere il cuore spirituale del Cristianesimo. Accettare compromessi con il Pcc, nella speranza di ottenere una fragile tregua, si è rivelato un errore. Questo approccio non solo non riduce il numero delle persecuzioni, ma incoraggia il regime a intensificare le sue imposizioni. Come ha espresso più volte il cardinale Joseph Zen, storico difensore della libertà della Chiesa in Cina, il compromesso con il male non porta mai alla pace, ma alla sottomissione. Di fronte a un regime tirannico, la Chiesa deve difendere con forza i propri diritti.
Non farlo significa rinunciare alla sua missione evangelizzatrice e consegnare i propri discepoli nelle mani di un oppressore. Le persecuzioni in Cina non riguardano solo i cattolici cinesi, ma l’intera Chiesa universale, e persino la società laica d’Occidente. Se si accetta che un regime imponga i propri vescovi e reprima la libertà religiosa senza una risposta chiara e forte, si apre la strada a simili oppressioni altrove. È necessario che il Papa e i vescovi alzino la voce, condannando pubblicamente le ingerenze del Pcc e sostenendo attivamente i fedeli perseguitati. Inoltre, il popolo di Dio deve essere informato ovunque su ciò che accade in Cina. Troppe persone ignorano le sofferenze dei cattolici cinesi e la complicità, seppur indiretta, di accordi diplomatici poco chiari. La sinicizzazione della religione, così come promossa dal Pcc, non è altro che un attacco diretto alla libertà religiosa e alla dignità della Chiesa. Di fronte a questa sfida, il Vaticano è chiamato a reagire con coraggio, trasparenza e fermezza. Non basta un silenzio diplomatico: serve la voce della verità, da promuovere anche nei luoghi più ostili.
Aggiornato il 05 dicembre 2024 alle ore 10:03