Per una nuova Helsinki 50 anni dopo: la lezione di Aldo Moro

Nel 2025 saremo a 50 anni di distanza dalla storica Conferenza di Helsinki in cui fu sancito nell’atto finale il nuovo ordine mondiale fondato su alcuni principi base che servirono come punto fermo per lo sviluppo del diritto internazionale. L’atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa fu firmato il 1° agosto 1975 da trentacinque Stati, tra cui gli Usa, l’Urss, il Canada e tutti gli Stati europei tranne Albania ed Andorra, e fu il primo passo verso la normalizzazione dei rapporti delle relazioni tra l’Occidente capitalista e l’Oriente comunista. Probabilmente fu l’inizio della globalizzazione, oggi entrata in crisi con la guerra in Ucraina. In questa storia di dialogo tra superpotenze ebbe un grande ruolo l’Italia grazie ad Aldo Moro, allora ministro degli Esteri, che seppe porre sul tavolo delle trattative alcune questioni chiave che ancora oggi sono al centro della politica mondiale. In quegli anni che vanno dal 1969 al 1974 l’Occidente era attraversato dalla contestazione sessantottina e il blocco sovietico era stato sconvolto dall’invasione della Cecoslovacchia secondo la dottrina Brežnev, allora capo dell’Urss, che prevedeva l’intervento negli affari interni di tutti gli Stati allora nell’orbita del Patto di Varsavia in nome della difesa del socialismo reale.

Per non parlare che la Guerra del Kippur, combattuta tra il 6 e il 24 ottobre 1973 da Israele e una serie di Paesi arabi guidati dall’Egitto e dalla Siria, che determinò una crisi energetica dovuto al blocco delle esportazioni di greggio da parte dei Paesi Opec verso quel Occidente che aveva sostenuto lo Stato ebraico. Embargo che causò danni notevoli all’economia tanche che in Italia il Governo Rumor dovette introdurre quelle restrizioni che inaugurarono la cosiddetta “austerità” delle domeniche a piedi. In quel momento le nazioni europee si scoprirono vulnerabili proprio sul piano energetico. Leonid Brežnev e Andrej Andreevič Gromyko (ministro degli Esteri dell’Urss dal 1957 al 1985) peraltro avevano ben chiaro che l’invasione della Cecoslovacchia aveva aperto gli occhi a tanti europei che nel regime comunista avevano creduto e proprio per questo cercavano una legittimazione della situazione che si era venuta a determinare con l’intervento militare che pose fine alla Primavera di Praga nel 1968. Per questo una conferenza in cui si poteva discutere apertamente degli equilibri in Europa era possibile, anche se Richard Nixon manifestava la sua diffidenza per quello che sarebbe stato il riconoscimento geopolitico della situazione presente, un probabile successo diplomatico dell’Urss ma anche l’ingresso nel panorama diplomatico della Cee.

Proprio per questo il ministro degli Esteri italiano Aldo Moro, che manifestava una certa indipendenza dalla Casa Bianca e credeva fortemente nel ruolo che avrebbero potuto svolgere gli Stati europei, si mobilitò perché fosse possibile la Conferenza e si potessero ridefinire i principi del diritto internazionale. E alla fine fu essenziale il suo contributo all’elaborazione della prima parte dell’atto finale di Helsinki relativa alle questioni relative alla sicurezza in Europa i cui articoli VII e VIII furono intitolati rispettivamente Rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo ed eguaglianza dei diritti ed autodeterminazione dei popoli. Ma Moro diede un apporto fondamentale anche alla parte terza relativa alle questioni relative alla sicurezza e alla cooperazione nel Mediterraneo, problematiche lo interessavano molto sia come italiano che come europeo. Grazie a lui alla Conferenza di Helsinki per la prima volta emerse chiaro il ruolo politico oltre che economico della Cee rispetto a quello inesistente dei Paesi del Comecon totalmente subalterni all’Urss.

Nel discorso all’Assemblea generale dell’Onu del 6 ottobre 1971 Aldo Moro espone la missione e l’orizzonte che si voleva raggiungere “la Conferenza (sulla sicurezza e la cooperazione in Europa) rappresenterà certamente un passo avanti. Ma se essa dovesse ispirarsi ad un criterio notarile, se essa fosse diretta a cristallizzare l’attuale situazione e non ad aprire le porte verso l’avvenire, i suoi risultati non sarebbero del tutto soddisfacenti. È chiaro che bisogna procedere con prudenza e realismo. Tuttavia non si dovrà permettere che la grande speranza di tutti i popoli d’Europa di vivere una vita più libera, più prosperosa, più aperta, sia imprigionata nelle strette maglie di un Trattato puramente formale. In tal modo, anche non volendolo, non si farebbe che sanzionare la divisione dell’Europa”. Scrive Giorgio Olmi in Aldo Moro alla Conferenza di Helsinki: la nascita di una nuova Europa, “il ruolo politico della Cee (e in essa il contributo decisivo del ministro degli esteri italiano Moro) per la preparazione della conferenza fu di assoluto primo piano: proprio su decisione dei suoi ministri degli esteri riuniti nel Consiglio ministeriale del novembre 1970 si decise, in sintonia con quanto approvato in sede Nato e dopo avere approfondito le complesse problematiche dei rapporti est-ovest, di incaricare il Comitato politico, formato dai direttori generali degli affari politici dei sei Ministeri degli Esteri, di preparare un rapporto analitico.

I contributi più rilevanti dell’Italia alle consultazioni furono essenzialmente: − la proposta Csce/Hc/18 del 15 gennaio 1973 in tema di questioni riguardanti la sicurezza: commissione e sottocommissioni. La delegazione italiana presentò le idee comunitarie per quella che sarebbe divenuta la materia del primo cesto: erano evidenziati i principi che devono regolare le relazioni fra gli Stati e le misure per la fiducia e la stabilità, venivano indicati in modo esplicito e dettagliato come principi concernenti le relazioni fra gli Stati quelli che poi avrebbero costituito i dieci articoli del primo cesto dell’atto finale, veniva sottolineato che bisognava partire dal punto di vista che la divisione dell’Europa e l’appartenenza degli Stati partecipanti a sistemi sociali differenti così come a raggruppamenti politici e militari, non dovevano impedire agli Stati di beneficiare pienamente delle prerogative che derivavano dai principi affermati; − la proposta Wg/4o del 22 maggio 1973 insieme alla Repubblica federale di Germania, Austria e Cipro riguardante l’esame degli aspetti sociali ed economici della manodopera emigrante”.

Moro riuscì a porre all’attenzione del mondo la necessità della stabilità politica del Mediterraneo per la sicurezza e la cooperazione tra gli Stati europei della Cee, e di una soluzione per il rapporto sempre conflittuale tra Israele ed i Paesi arabi. L’abilità diplomatica Moro riuscì a far sì che sia Israele da una parte e Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto e Siria dall’altra portassero comunque il loro apporto alla Conferenza. Al termine dei lavori firmarono i capi di Stato e di Governo dell’Austria, del Belgio, della Bulgaria, del Canada, della Cecoslovacchia, di Cipro, della Danimarca, della Finlandia, della Francia, della Repubblica federale di Germania, della Grecia, dell’Irlanda, dell’Islanda, dell’Italia, della Jugoslavia, del Liechtenstein, del Lussemburgo, di Malta, di Monaco, della Norvegia, dei Paesi Bassi, della Polonia, del Portogallo, del Regno Unito, della Repubblica democratica tedesca, della Romania, di San Marino, della Santa Sede, della Spagna, degli Stati Uniti d’America, della Svezia, della Svizzera, della Turchia, dell’Ungheria e dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche.

Tra tutti gli Stati che avevano territorio in Europa mancavano solo Andorra e l’Albania. Questo fu il primo documento dalla fine del Sacro Romano Impero sottoscritto da tutti gli Stati europei compresi quelli “dell’altra Europa”, quella del blocco sovietico. Fu l’inizio di una nuova idea di fratellanza tra i popoli e le nazioni e quindi della globalizzazione. Le democrazie liberali e quelle socialiste si incontravano su principi condivisi e tutto sommato orientati a quella pace di cui abbiamo goduto fino alla presente guerra in Ucraina. In quell’occasione era nata una nuova Europa, tanto che dopo il crollo dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia, gli Stati oramai liberi di determinare il proprio destino trovarono naturale entrare nell’Ue, che garantiva loro libertà e prosperità, piuttosto che rimanere nell’orbita della Federazione Russa.

Nell’atto finale degli accordi di Helsinki furono declamati i dieci principi che dovevano negli anni a seguire orientare il diritto internazionale:

1) Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità.

2) Non ricorso alla minaccia o all’uso della forza.

3) Inviolabilità delle frontiere.

4) Integrità territoriale degli Stati.

5) Risoluzione pacifica delle controversie.

6) Non intervento negli affari interni.

7) Rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo.

8) Eguaglianza dei diritti ed autodeterminazione dei popoli.

9) Cooperazione fra gli Stati.

10) Adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale.

Cosa è rimasto in piedi di questo decalogo nella politica internazionale lo abbiamo visto negli ultimi mille giorni e nelle dichiarazioni bellicose dei vari capi di Stato, europei e non. Ma quello che è peggio è l’assoluta perdita del ruolo centrale della Unione europea, per il quale si era speso Aldo Moro. L’Europa è ormai relegata a ventriloqua di decisioni prese altrove e da lei rilanciate acriticamente senza una visione del futuro. La logica della contrapposizione frontale, con continui rilanci sul piano militare e verbale, ha portato ancora di più alla chiusura dei rispettivi sistemi politici, sociali ed economici, quando invece sarebbe stata necessaria una nuova Helsinki, una Conferenza internazionale tra tutte le vere potenze globali in cui ridisegnare la mappa dei principi su cui fondare un nuovo ordine mondiale avendo come caposaldo la non aggressione e la risoluzione diplomatica delle controversie.  Ma come ha affermato il segretario di Stato del Vaticano il cardinale Pietro Parolin “l’azione diplomatica, la pazienza del dialogo, la creatività della trattativa sembrano scomparsi, retaggi del passato. E a farne le spese sono le vittime innocenti. La guerra ruba il futuro a generazioni di bambini e di giovani, crea divisioni, alimenta l’odio.

Quanto bisogno ci sarebbe di statisti dallo sguardo lungimirante, capaci di gesti coraggiosi di umiltà, in grado di pensare al bene dei loro popoli”. Purtroppo sono mancati in questi ultimi anni i grandi statisti che fecero l’Unione per potere affrontare con piglio deciso la sfida del dialogo. È senza dubbio più facile fare parlare le armi che la diplomazia. Alla fine chi resterà in piedi avrà gioco facile ad imporre le proprie decisioni, ma a che prezzo? La distruzione di migliaia di vite e forse anche della civiltà che conosciamo. In questa situazione essere ottimisti sarebbe da ingenui, ma realisti si e visti gli interessi in gioco forse proprio questi possono spingere le parti in causa prima a parlarsi e poi ad accordarsi. In questo clima servirebbe un protagonismo europeo che non si vede all’orizzonte. Ed il primo passo sarebbe quello di rilanciare l’idea di una Costituzione federale dell’Europa, in cui siano chiaro il ruolo degli Stati e quello dell’Unione.

Tentativo colpevolmente fatto fallire qualche anno addietro da una deleteria propaganda anti europea imbastita da politici irresponsabili. Così come è adesso la fantomatica Unione europea, un’alleanza commerciale basata sulla moneta comune (che è un grande traguardo per la stabilità dell’economia continentale), non è in grado di competere su nessun piano nelle relazioni internazionali, anche perché la miopia dei capi di Governo delle singole nazioni fa sì che ognuno tratti per sé. È arrivato il momento di interrogarsi seriamente se non sia il caso di arrivare al più presto ad una più stretta integrazione politica e militare e passare all’Unione federale degli Stati europei superando infantili ed incapacitanti manie e fobie nazionaliste buone per la propaganda e non per una politica di ampio respiro orientata alla pace e alla prosperità degli individui. Va riletto anche per questo l’intervento di Aldo Moro al IX Congresso nazionale della Democrazia cristiana il 16 settembre 1964 nel quale asserì che era necessario “fare un’Europa che serva da sfondo per le generazioni che vengano, fare dell’ideale europeo un ideale che animi ed offra speranze alla nostra gioventù”.

“Dobbiamo conservare integri i lineamenti dell’Europa di domani che vogliamo, così come ci è stata descritta, un’Europa aperta, un’Europa democratica, un’Europa integrata, cioè un vasto ed equilibrato complesso di popoli affini che mano a mano rinunziano ad una parte della loro sovranità per costituirsi in una forma politica nuova: questo è l’ideale che deve essere alimentato! Questo è importante: non avere soltanto una struttura europea, ma avere una struttura europea che copra una politica comune” e poi in Senato il 12 marzo 1971 quando dichiara che “non ha grande importanza il nome con cui si vorrà designare questo complesso (l’Europa unita), sia esso confederazione oppure unione o comunità. Ciò che importa è che essa si doti ad un certo momento di istituzioni le cui forme possiamo anche non distinguere oggi esattamente, ma che debbono essere tali da permettere alle nazioni europee di agire con rafforzata efficienza ed energia per partecipare più intensamente alla vita del mondo, al progresso ed alla pace”.

Solo un’Europa legittimata da una Costituzione liberale, rigida, votata e democratica fondata sulla limitazione del potere di chi governa, sullo schema di quella degli Stati Uniti d’America, che ancora sono la più grande democrazia del pianeta ed al contempo la “peggiore” ma una “migliore” ancora non la si conosce, può fare da legame tra nord e sud del mondo, tra oriente e occidente e da elemento di stabilità nel Mediterraneo. L’Italia per la sua storia, per sua collocazione geografica, e per la naturale attenzione del ceto dirigente passato ai problemi continentali e mediterranei, dovrebbe fare da traino per un nuovo processo di pace, come nel 1975 ad Helsinki, altrimenti è assolutamente inutile partecipare a G7 o G20 solo per una foto ricordo con i grandi della terra senza però che si sia determinato nessun atto concreto in politica estera.

E questo non dipende dalla dimensione del Paese di appartenenza ma dall’autorevolezza e dalla ragionevolezza delle proposte di chi ne guida momentaneamente le sorti. Solo per inciso: nel frasario della destra di Governo che fine ha fatto l’idea, rilanciata anche recentemente da alcuni intellettuali indipendenti italiani, di un’Europa nazione? Il conflitto in Medio Oriente e la connessa crisi energetica a livello mondiale, ci riporta dunque all’Europa, alla sua unità, alla sua iniziativa, alla sua funzione nel mondo. Questa solidarietà, del resto niente affatto chiusa in se stessa, è la nostra salvezza, la salvezza di ciascuno dei nostri Paesi, ma essa è pure utile al mondo, al suo equilibrio, ad un’efficace politica di distensione e di pace. Un tale equilibrio non irrigidito nel semplice rapporto tra le due superpotenze, ma risultante da un’appropriata diversità di centri di potere e d’influenza, richiede una presenza unitaria dell’Europa occidentale. Ciò serve per gli altri, non meno che per noi (Aldo Moro, intervento alla XXIV Assemblea generale delle Nazioni Unite, 8 ottobre 1969).

Aggiornato il 26 novembre 2024 alle ore 13:14