Quando Simone Weil partì alla volta dell’America affidò i suoi scritti a Gustave Thibon, un filosofo cattolico e contadino, presso la cui tenuta aveva lavorato e con il quale si era intrattenuta tante volte a conversare su Dio. Era stata indirizzata a lui, nel giugno del 1941, dal suo confessore e padre spirituale, Joseph Marie Perrin, dopo che lei gli aveva manifestato il suo desiderio di provare sulla sua pelle le fatiche del lavoro nei campi. Trascorse così alcune settimane nella Valle del Rodano, principalmente nel periodo della vendemmia. In un libriccino intitolato Amore e violenza, Gustave Thibon s’interroga su cosa significhi il desiderio d’elevarsi contro la guerra ed essere un pacifista, chiedendosi se può essere davvero un amico della pace chi ha paura di assumersi delle responsabilità o farsi dei nemici, o chi si adatta come cera ai contorni di qualunque carattere o circostanza. In realtà, simili comportamenti, per quanto si cerchi di gabellarli per bontà, per indulgenza e per tolleranza, non denotano secondo lui nient’altro che “pochezza d’animo, amor di quieto vivere, scetticismo, indifferenza al bene e al male. E se, generalmente parlando, la propaganda dei pacifisti, gli appelli alla concordia e all’amor fraterno mancano d’autorità, di mordente, è perché vengono da persone che stanno al di sotto e non al di sopra della guerra. Quando il pacifista ci sembra aver meno vitalità che non il bellicoso, è da credere che in lui non sia la vera pace. Il pusillanime è assai più lontano dal santo, che non sia il guerrafondaio”.
Ai veri pacifisti ripugna invece – secondo Thibon – l’adattarsi alla mediocrità e scendere a patti col male per tutelare il privilegio di una propria tranquillità d’animo, e giammai si sognerebbero di servirsi della parola “pace” per un proprio tornaconto, personale o politico: questa è infatti esattamente la pace maledetta da Cristo, quella verso cui venne a recar guerra. Sotto questo riguardo, per comprendere meglio perché i pacifisti propongono una falsa idea di pace, possono venire in aiuto anche Friedrich Nietzsche e Lenin, che partivano da una prospettiva etica apparentemente opposta a quella cristiana. Per entrambi, infatti, una morale sana consisteva “nel ripudiare i precetti cristiani di rassegnazione, di perdono delle offese, di amore per il nemico e via dicendo; sul piano della concezione eraclitea del mondo, infatti, sul piano della natura umana decaduta e su quello della volontà di potenza, le virtù cristiane non possono esser altro che travestimenti, astuzie di guerra dei deboli e dei vili”. Tuttavia, la loro critica può far leva solo su un’interpretazione errata e fuorviante del cristianesimo, di cui peraltro non sono di certo i primi o principali responsabili. Una simile interpretazione tende infatti a confondere la mitezza con la mancanza di rigore morale, l’ideale della non violenza con l’incapacità di opporsi con coraggio alla violenza o, ancora peggio, con la non volontà di farlo per quieto vivere, magari evocando a propria giustificazione morale il Discorso della montagna. Ma “l’amore verso il nemico – spiega Thibon – la mitezza verso tutti, diventano vere virtù solo nel clima della santità cristiana, solo nell’ordine soprannaturale, in cui l’Io e la sua volontà di potenza cedono davanti all’amore”.
E la santità cristiana non è qualcosa che si può conseguire collettivamente, ma vi si può approdare solo attraverso accessi personali. L’umanità non è ancora matura per l’esercizio generalizzato della non violenza e “la vocazione della croce è un dono strettamente personale”. Già Armand-Jean du Plessis de Richelieu, del resto, aveva fatto notare che “i mali sociali non si possono curar con gli stessi metodi di quelli individuali, sicché nemmeno il santo ha diritto, se la sua patria viene aggredita, di lasciare che l’aggressore gli massacri i fratelli”. La santità che è consentita all’uomo è individuale e può essere raggiunta solo passando dall’esperienza della luce che si sprigiona dalla debolezza di Dio. Thibon cita a questo proposito una tesi di San Paolo che era molto cara anche Simone Weil, secondo la quale “la debolezza di Dio è più forte dell’uomo. Se la debolezza insita nella natura umana vuol essere più forte della forza, è necessario che proceda dal nostro amor di Dio. La non violenza cristiana non rassomiglia alla viltà, più che la castità all’impotenza. Nietzsche e Lenin, che fanno della guerra la forza motrice del progresso e la madre feconda della società, al loro livello e dentro i limiti loro hanno ragione di difender la natura umana da certe malattie che si mascherano da virtù”.
Ma non solo loro. Anche chi, come il Mahatma Gandhi, non ha mai considerato la guerra in questo modo, predicando anzi la non resistenza al male, è su questo punto molto più vicino alla loro posizione che non a quella dei falsi pacifisti. L’apostolo della non violenza riteneva infatti che, se non vi fosse altro da scegliere che la violenza o la viltà, non avrebbe esitato a consigliare la violenza. Le radici morali di questa contraddizione solo apparente, per cui Gandhi può legittimamente scegliere la prima opzione rispetto alla seconda, si trovano secondo Thibon, “nell’Io chiuso in sè stesso. Fra violenza e pusillanimità vi è, sì, divario di gradazione, ma non di natura. Il violento altro non è, se non un pusillanime in istato d’irrigidimento”. Per questo il principio della non resistenza al male, quale è formulato nel Vangelo, può essere attuato solo in un clima di santità: “In altri termini, non è lecito rinunciare alla spada, se non a patto d’esser pronti a distendersi sulla croce”. Come avevano già diversamente sottolineato Joseph Marie de Maistre e Nietzsche, chi vuole sottrarsi alla guerra e battersi contro di essa deve rassegnarsi a subire il male che si rifiuta di commettere, altrimenti il suo può essere solo un pacifismo di comodo. Qualsiasi mistica della pace che “non comporti coraggio e rischio almeno pari a quelli che comporta la religione della guerra, è soltanto una maschera che nasconde la debolezza e la paura. È opportuno non dimenticare qual sorte sia stata riservata quaggiù al Dio di pace il martirio del Calvario fu la conseguenza logica e la rigorosa applicazione pratica del Discorso della montagna”.
La stessa Simone Weil riteneva che, se colui che brandisce la spada è destinato a perire di spada, chi la depone è destinato a perire sulla croce: trasformare la violenza altrui in sofferenza propria significa infatti partecipare alla redenzione di Cristo. Il peccato che portiamo in noi tende a propagarsi al di fuori “ed è causa per contagio di altri peccati”, ma quando invece siamo “a contatto con un essere perfettamente puro avviene una trasmutazione e il peccato diventa sofferenza. Questa è la funzione del Giusto d’Isaia, dell’Agnello di Dio”. In sintesi, “il falso Dio muta la sofferenza in violenza. Il vero Dio muta la violenza in sofferenza”. Quando il pacifista arriva a rivendicare il proprio diritto all’obiezione di coscienza, a rifiutarsi di partecipare alla difesa della propria comunità, secondo Thibon si rifiuta anche di vivere in modo coerente la propria richiesta di pace e non accetta di subire le conseguenze violente della propria posizione. In questo modo, il pacifista dimostra di assecondare una logica prettamente egoistica e opportunista; l’obiettore di coscienza si rivela così “un egoista trascendente, che al suo ideale di perfezione personale sacrifica i più sacrosanti interessi e la vita stessa della comunità a cui appartiene”.
Nemmeno la santità esime un vero cristiano dal dovere di difendere i propri fratelli quando la loro vita è messa in pericolo, e invocare la pace in casi del genere serve solo a camuffare una sostanziale pusillanimità, perché “la spada sta all’anima pacifica costretta a battersi, come la croce sta al martire”. Tuttavia, se in talune circostanze bisogna essere disposti anche a uccidere, questa scelta è ammissibile solo a condizione di trovarsi, nel momento in cui la si attua, nella stessa disposizione d’animo che ci si augurerebbe d’avere in punto di morte. In questi casi, cioè, può risultare doveroso infliggere anche la morte, ma lo si dovrebbe fare senza alcun odio o risentimento, come partecipando a un sacrificio che ci trascende. Thibon esorta infatti, persino quando si è impegnati a combattere, a “non dimenticare, nemmeno nel furor della battaglia, quell’amore e quella debolezza ultima, in cui la guerra deve liquefarsi e dissolversi”. Anche sul tema del perdono, sul suo significato autentico, nonché sulla mitezza d’animo che lo rende spontaneamente possibile, Gustave Thibon scioglie alcuni fraintendimenti ricorrenti. Per distinguere un vero da un falso perdono, fondato quest’ultimo più sul desiderio di un quieto vivere che non su un vero amore per il prossimo che ci ha offeso, bisogna porsi la seguente domanda: “Se fossi matematicamente sicuro che il perdono avrebbe per me conseguenze più gravi e dolorose che non la vendetta, perdonerei io lo stesso in tal caso?
Se sì, devo perdonare; se no, per lo meno sul piano umano, sarei più sincero vendicandomi”. In altre parole, bisogna essere “nudi” di fronte a se stessi, o “senza schermi”, come avrebbe detto Dante, al cospetto di se stessi, ed evitare di travestire da virtù cristiana la propria paura e il proprio tornaconto; e non si deve rinunciare alla lotta menandosene vanto e invocare la pace solo per pusillanimità, perché questi comportamenti son ben lungi dal testimoniare qualche virtù cristiana. Così come esistono un vero e un falso perdono, esistono infatti una pace vera e una falsa. Cristo condanna la falsa pace, ed è in questo senso che venuto a portare la guerra. Quando dice che “i violenti rapiranno il regno dei cieli”, condanna proprio la falsa pace; così come, quando dice, “beati i pacifici”, “vi lascio la pace, vi do la mia pace”, secondo Thibon “è della pace vera che intende parlare”, per precisare poi che un “mondo separato da Dio non ha in sé principio alcuno di vera pace e ciò ch’esso chiama pace è solo astuzia di guerra, tregua d’armi, equilibrio fra due antagonismi che s’annullano a vicenda. La pace vera è frutto dell’amore soprannaturale”. Per questo, anche quando si legge nel Vangelo: “Beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram”, questa frase dovrebbe essere intesa come un invito ad un esercizio di fede e di debolezza nella fede, a un abbandono a Dio non in ragione della sua forza o della sua potenza, ma a lasciarsi vincere da “Colui che vinse il mondo” con la sua debolezza. Solo attraverso questa porta stretta gli ideali della mitezza e della non violenza diventano pienamente sinceri; solo percorrendo questo difficile passaggio si lasciano distinguere chiaramente dall’opportunismo egoico e dalla pusillanimità di coloro che, sotto il vessillo della “pace”, storpiano e strumentalizzano il senso di questa parola, che dovrebbe invece essere rispettato e tutelato da ogni vero cristiano.
(*) Amore e violenza di Gustave Thibon, Tabula Fati Editore 2002, traduzione di Carlo Cumano, 32 pagine, un euro
Aggiornato il 15 novembre 2024 alle ore 09:33