La vittoria di Donald Trump ha indotto il rilancio di un vecchio, anzi, antico presupposto circa l’inopportunità, per il bene pubblico, che una persona ricca sia a capo di un Governo. Si tratta di una posizione che viene da lontano, da Platone a Rousseau per intenderci, ma che, se vista da vicino, lascia molto perplessi. Ad ogni modo, è un’opinione largamente diffusa che viene ripetuta ogni volta che un personaggio facoltoso vince le elezioni, come nel caso di Trump o di Silvio Berlusconi ma non, chissà perché, di John Kennedy, sicuramente di famiglia non disagiata, e nemmeno, per ragioni diverse, riguardo al ricco Camillo Benso Conte di Cavour cui dobbiamo l’unità dell’Italia e, in parte, la sua modernizzazione senza che ne abbia tratto particolari benefici personali. Gli argomenti su cui si basa questo convincimento sono essenzialmente due. Il primo sostiene che, essendo ricco, un Presidente, per una specie di ovvietà indimostrata, favorirà i ricchi e mostrerà poca sensibilità nei confronti dei poveri. Il secondo fa riferimento a possibili conflitti di interesse fra i doveri pubblici, come Presidente, e gli interessi a cui è legata la sua ricchezza nonché quelli dei gruppi sociali da cui dipende la sua stabilità.
In sostanza siamo di fronte ad una coppia di ragionamenti apparentemente persuasivi ma, in realtà, decisamente superficiali e miopi, veri e propri luoghi comuni. Innanzitutto, a meno di credere alla realizzabilità della politeia aristotelica che, peraltro, non garantisce, di per sé, la qualità di un Governo, ci si può chiedere cosa si intenda per ricco. Quale è il patrimonio personale al di là del quale uno è definibile ricco? Qui si sfiora il ridicolo: un piccolo industriale è accettabile mentre il titolare di una grossa impresa no? Dovremmo forse limitare i diritti civili individuali, fra i quali il diritto di fare politica, riservandoli ai non-ricchi comunque definiti, trascurando del tutto i principi cardine della democrazia? E poi c’è una doverosa simmetria: se si pensa che un ricco sia condizionato dalla sua ricchezza allora dovremmo pensare che un Presidente povero sia condizionato dalla sua povertà e che, invece di mostrarsi maestro di imparzialità e lungimiranza nella conduzione del Governo, possa riversarvi massicce dosi di risentimento sociale. Tuttavia, la capacità di ambedue le figure di puntare al bene comune dipenderà, in realtà, da altre qualità personali che nulla hanno a che fare con l’entità del patrimonio posseduto.
Il conflitto di interesse, peraltro regolato, nei sistemi liberal-democratici, da norme precise e che, comunque, indica un fenomeno possibile e non un dato di fatto automatico, consente di introdurre riflessioni che sfiorano la comicità. Poniamo che, in certo Paese, vi sia una popolazione quasi completamente analfabeta e solo pochissimi uomini letterati e colti: forse si dovrebbe evitare che uno di questi ultimi venga eletto Presidente perché troppo ‘lontano’ dalla realtà culturale dei suoi concittadini e potenzialmente sensibile unicamente agli interessi esclusivamente culturali ed economici delle persone colte? E in un Paese nel quale la misurazione del quoziente di intelligenza fosse generalizzato, dovremmo forse impedire che il Presidente venga eletto fra gli uomini più intelligenti per la paura che, così facendo, gli daremmo il potere di pensare solo agli affari suoi per mezzo di discorsi e azioni ingannevoli di cui il resto della popolazione non capirebbe la natura e le finalità? Infine, se un Presidente vincesse un ammontare enorme all’Enalotto, dovrebbe forse dimettersi?
Più seriamente: a conti fatti non esiste alcuna professione antecedente alla elezione che garantisca, di per sé stessa, oculatezza, intuito politico, sensibilità sociale e così via. Un Presidente che, prima dell’elezione, fosse agricoltore oppure artigiano, avvocato o operaio porterebbe inevitabilmente con sé, insieme ad una non inutile esperienza, un notevole e inevitabile carico di potenziali condizionamenti e di attenzione verso la propria categoria ma la sua condotta non dipenderà necessariamente da tutto questo bensì, oltre che dalla sua coscienza, dalla perspicacia politica e dalla capacità di previsione che saprà dimostrare. L’idea che un uomo ricco, anche se, magari, povero in gioventù, sia intrinsecamente portatore di oscure trame di potere finalizzate all’accrescimento del proprio dominio economico, nasconde, in verità, una antica e gretta propensione negativa, che in molti casi include l’invidia, verso chi, grazie al proprio lavoro, ha avuto successo e che diviene ‘scandalo’ quando costui pretende persino di governare il proprio Paese. Ciò non significa, mi sembra ovvio, che la ricchezza sia da inserire nelle caratteristiche ideali di un buon Presidente, ma solo che la ricchezza è unicamente una delle possibili origini di condizionamento pur non avendo, peraltro, nulla a che fare con la genuinità delle idee politiche e con l’impegno e la responsabilità che il potere comporta.
Aggiornato il 12 novembre 2024 alle ore 12:51