Trump e l’onda lunga della storia

Ho letto tanti commenti sulla vittoria del presidente Donald Trump e si possono – grosso modo – suddividere in gruppi, a seconda della causa, indicata del successo del tycoon poco annunziata dalla comunicazione mainstream un po’ perché temuta, di più ancora perché di danno alla candidatura di Kamala Harris. Prima causa: il popolo si è sbagliato. Ciò capita a tutti, anche a governanti che, in quanto uomini, non sono infallibili, tranne il Papa, che ha però il supporto dello Spirito Santo (scusate se è poco) almeno quando parla ex cathedra. Il retropensiero (neppure tanto retro) di tale argomento è invece che (oltre al Papa) sono infallibili i tecnici, le élite, alcune televisioni e certi giornali (la maggioranza). Questo perché i suddetti infallibili giudicano applicando fatti, norme, principi, protocolli, griglie di valori corretti. Che la congruità delle proposte si valuti in base ai risultati conseguiti più che alla conformità alle regole è un criterio loro del tutto estraneo. Che alla base del successo di Trump ci fosse il giudizio positivo degli americani su 4 anni di presidenza Trump, fossero i buoni risultati economici e forse ancora di più il fatto che, contrariamente a tutti i suoi predecessori nella carica (a partire dagli anni Novanta) a) non avesse fatto guerre b) anzi ne ha chiusa una, non era considerato dai commentatori Ztl.

Seconda causa: le nostre idee, i nostri sogni sono più belli di quelli di Trump il quale ha ingannato abilmente il popolo facendogli credere che i suoi siano preferibili. Anche tale argomento è facilmente contestabile: da un lato perché gli elettori valutano più i risultati (mediocri) dei governanti che i loro (buoni) propositi elettorali. In secondo luogo perché la sinistra, soprattutto quella comunista, ha sempre manifestato un abisso tra le mete radiose proposte (le società senza classi, la pace universale, l’uguaglianza, la prosperità e via sognando) e le (modeste) realizzazioni conseguite (causa principale del crollo planetario del “socialismo reale”). Onde a questo genere di argomenti i popoli sono abituati, e sostituire le società senza classi con la crisi climatica non li rende più credibili. Terza causa: gli errori e le ingenuità commessi nella campagna dagli spin-doctor incompetenti, dal cattivo uso della rete, fino alle star inutili e talvolta controproducenti. Carattere comune di tali argomentazioni è di considerare tutti aspetti e figure accessorie. Ossia il cibo è buono, ma presentato e cucinato maldestramente. Anche qui pare piuttosto un tentativo di far “volare gli stracci” per salvare direttore d’orchestra e spartito.

E si potrebbe continuare a lungo: ma siccome tutti tali argomenti hanno il connotato comune di essere frutto – totale o parziale – di fantasia, e a questa non c’è limite (mentre alla realtà, sì) preferisco continuare con gli argomenti contrari: cioè perché Trump, secondo me, ha vinto. Partendo, ovviamente, dai dati di fatto. In primo luogo: la vittoria dei partiti anti-establishment (detti anche populisti, sovranisti) non è un fenomeno statunitense, ma quasi planetario, almeno nell’Occidente. Ovviamente tra gli uni e gli altri movimenti ci sono differenze, ma una spiegazione non può prescindere dai connotati comuni che, accanto alle diversità nazionali, tali soggetti politici (e i di essi elettori) hanno. Come scrivo da parecchi anni, se fino al crollo per implosione del comunismo, il raggruppamento amico-nemico coincideva (principalmente) con quello economico borghesi-proletari, è stato sostituito dal nuovo globalisti-populisti (establishment contro anti-establishment). Tale contrapposizione si articola in tutta una serie di caratteri comuni (e contrapposti).

In primis della differenza del sentire comune, come già scriveva trent’anni fa Christopher Lasch: le élite globaliste e i governati hanno “tavole di valori” differenti e spesso opposti. L’idem sentire de re publica si atrofizza e si sviluppa la differenza etica, che, secondo Georg Wilhelm Friedrich Hegel, è alla base della discriminante amico-nemico. In secondo luogo (ma forse le spetta il primo), si sviluppa la differenza d’interessi tra classe dirigente e governati a sua volta suddividentesi in più aspetti, a cominciare dal dilatarsi della “forbice” della differenza dei redditi, ma del pari visibile dall’imposizione-elusione tributaria (i “paradisi” fiscali) dalla delocalizzazione (e non solo). In terzo luogo, alle rivendicazioni identitarie. Anche qua si potrebbe continuare a lungo: resta il fatto che argomenti “etici”, “identitari” ed “economici” sono comuni a tutti i movimenti anti-establishment: dai gilet-jaunes alla rust-belt, dai leghisti ai seguaci di Viktor Orbán.

Per cui continuo a pensare che la vittoria di Trump, così come quella delle forze anti-establishment nel resto del mondo sia dovuta ad un cambiamento epocale della politica. Come scriveva Carl Schmitt nell’età moderna il criterio del politico è cambiato a seconda dei periodi seguendo lo Zentralgebiet (dal teologico al morale, da questo all’economia): ora siamo in una fase nuova, un nuovo Zentralgebiet. E Trump, come Viktor Orbán, Marine Le Pen, la nostra Giorgia Meloni sono l’effetto e non la causa del cambiamento.

Aggiornato il 11 novembre 2024 alle ore 10:39